Pavel Florenskij oltre Amleto. L’antinomia dalla paralisi all’opportunità

Silvano Tagliagambe

 

 

  1. L’antinomia come blocco e paralisi

 

Se dovessimo cercare, all’interno della ricchissima e composita produzione di Pavel Florenskij, un motivo conduttore che ne accompagna con continuità la riflessione teologica, filosofica, artistica e scientifica, credo che non potremmo individuare un candidato migliore del tema dell’antinomia e della sua duplice valenza.

Esso si affaccia infatti già in un’analisi dell’Amleto di Shakespeare che risale al 1905, allorché l’autore frequentava il secondo anno dell’Accademia teologica di Mosca; è presente in modo massiccio nella sua opera teologica più importante, il saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere pubblicato nel 1914 con il titolo Stolp i utverždenie istiny; ed è ancora il tema dominante dell’ultimo suo scritto prima dell’arresto e dell’invio nel gulag delle Solovki, La fisica al servizio della matematica del 1932. Questa successione di date è già di per sé sufficiente a farne una presenza costante e rilevante all’interno dell’intero arco del suo pensiero.

Cominciamo dall’Amleto, un breve saggio scritto, come detto, nel 1905 e destinato alla rivista ‘Vesy’ (La bilancia), rimasto inedito per ragioni sconosciute. Non si tratta di una data qualunque: quell’anno si era aperto, il 22 gennaio (9 gennaio nel calendario giuliano) con la “domenica di sangue”, giorno in cui Georgij Apollonovič Gapon, un pope e rivoluzionario che l’anno prima aveva organizzato a Pietroburgo, d’accordo con la polizia, l'”Associazione degli operai russi di fabbriche e officine”, si mise alla testa di oltre centomila lavoratori diretti verso il Palazzo d’Inverno per presentare una petizione allo zar Nicola II, al quale si chiedeva di intervenire per indurre gli industriali a migliorare le condizioni di lavoro nelle fabbriche e aumentare i salari. Era umile, scritta in modo semplice: “SIRE: Noi i lavoratori e abitanti di San Pietroburgo, di vario rango e posizione, le nostre mogli e i nostri figli e i nostri impotenti genitori anziani, veniamo a VOI o Sire per cercare giustizia e protezione. Siamo impoveriti; siamo oppressi, sovraccaricati di troppe fatiche, trattati in modo vergognoso. […] Stiamo soffocando nel dispotismo e nella mancanza di leggi […], non abbiamo più forza e la nostra sopportazione è al limite. Abbiamo raggiunto quel terribile momento in cui la morte è meglio del prolungamento delle nostre sofferenze insopportabili”. Non era dunque una manifestazione antizarista, anzi era espressione di una fiducia ancora piena nei confronti del sovrano, come dimostra anche il fatto che molti lavoratori avevano con sé immagini e ritratti di Nicola II, ma la polizia caricò la folla dei dimostranti e aprì il fuoco. Le cifre ufficiali del governo contarono duecento morti e ottocento feriti, ma quelle reali furono molto più alte, probabilmente quattro volte tanto.

Calò la sera e un moto di indignazione scoppiò a San Pietroburgo e si diffuse immediatamente in tutto il paese. Il giornalista inglese Harold Williams racconta: “[Guardai] le facce intorno a me e non vidi né paura né panico… ma ostilità e odio. Vidi questi sguardi d’odio su tutti i volti, giovani e vecchi, uomini e donne. Era scoppiata la rivoluzione. L’idea popolare – che fosse un mito o meno – di uno zar buono, che aveva retto il potere per secoli, fu distrutta in un attimo”. L’ambasciatore americano, Robert McCormick, riferì a Washington tre giorni dopo: “Gli eventi […] hanno indebolito, se non distrutto, quella incrollabile fedeltà e la profonda deferenza che aveva caratterizzato i sudditi dello zar di tutte le Russie. Ne ho avuto la prova [nell’atteggiamento mostrato] dalle classi più alte e più basse e risulta chiaramente da una lettera che ho ricevuto […] da Mr Heenan, il nostro console a Odessa, che scrive: ‘Nei diciotto anni che ho trascorso in Russia non ho mai visto il popolo così unito. […] Tutte le classi condannano le autorità e, in modo particolare, l’imperatore. Ha assolutamente perso l’affetto del popolo russo e quale che sia il futuro della dinastia, lo zar non sarà mai più al sicuro nel mezzo della sua gente’. Confermo l’opinione di Mr Heenan: l’imperatore non sarà mai più in grado di reintegrarsi nella sua precedente, unica, posizione”.

Uno stato di crisi acuta, dunque, uno spartiacque tra due fasi storiche, come ben comprese subito un osservatore attento e di grande acume e sensibilità come Florenskij, al quale ciò che si stava profilando nel suo paese ricordava l’Amleto di Shakespeare, da lui interpretato come l’espressione di una situazione epocale, descritta in modo efficace e incisivo da un passo della tragedia, da lui scelto, non a caso, come epigrafe del suo testo: “Il tempo è uscito di carreggiata [“Il mondo è fuor dei cardini” secondo altre traduzioni]. Oh me disgraziato che sono nato per rimetterlo sulla vecchia strada”[1].

Il carattere profondamente e intimamente tragico della figura di Amleto, secondo Florenskij, quello che appassiona e scuote a un tempo la coscienza di ogni lettore della tragedia di Shakespeare, “il segreto del fascino che ha avuto e ha dal momento in cui è stato scritto fino ai giorni nostri”[2], consiste nel fatto che egli ha in sé l’impronta di una transizione non risolta: “Amleto è vittima del processo storico e al tempo stesso è osservatore del suo punto più interessante, del suo vortice più impetuoso. Su di lui, ‘araldo troppo precoce di una primavera troppo lenta a venire’, pesa la responsabilità di tutto il processo del mondo, ed egli finisce tragicamente non essendo stato capace di compiere una missione superiore alle sue forze: traghettare anzitempo l’umanità a una nuova coscienza religiosa”[3].

Significativa qui è la ripresa dell’immagine dell’araldo ripresa dalla terza strofa della poesia di D. Merežkovskij Deti noči (I figli della notte), del 1896:

 

Sono irriverenti i nostri discorsi,

Ma a morte siamo condannati

Noi, araldi troppo precoci

Di una primavera troppo lenta a venire.

 

Questa impronta di una transizione non risolta si esprime nel fatto che “Amleto è preda della lotta fra i due principi che dominano le viscere delle sue coscienze[4]. Si, bisogna parlare di coscienze al plurale, in quanto “motivi nettamente contrapposti non possono trovarsi insieme in un’unica coscienza; l’unità della coscienza esclude questa possibilità. Per questo l’esistenza di atti di volontà antitetici esige l’esistenza di due coscienze incompatibili, così che una profonda crepa spacca la persona. E tuttavia, escludendosi reciprocamente, le coscienze di Amleto, le sue maschere, non si possono dare contemporaneamente in actu, nella realtà. Se ciò accadesse, avremmo due diverse persone, e in tal caso non ci sarebbe motivo perché gli atti entrassero in conflitto; essi si svolgerebbero parallelamente e non si avrebbe alcuna tragedia”[5]. L’unica possibilità, di conseguenza, è che una delle due cosciente sia in actu e l’altra soltanto in potentia. Tuttavia se le due coscienze fossero date “in modo tale che, dopo un certo periodo, una coscienza passasse in potentia e fosse totalmente sostituita dall’altra, avremmo due diverse persone che si succedono e non un unico protagonista, due diverse persone che prendono l’una il posto dell’altra nel tempo, ossia due non-protagonisti che si succedono. In questo senso, la lotta consiste nel successivo avvicendarsi delle coscienze del protagonista che si escludono reciprocamente; questo avviene in modo che una coscienza subentri all’altra prima che questa sia riuscita a manifestarsi in azione. L’azione dell’Amleto è costituita appunto dall’alternarsi di atti che si rimuovono a vicenda e dalla reciproca eliminazione che ne consegue. Siamo dunque giunti alla conclusione che la tragicità della situazione amletica è determinata dalla profonda scissione della sua coscienza, dal suo radicale sdoppiamento”[6].

Due coscienze, quindi, ciascuna delle quali si riferisce a un principio assoluto, e percepito come tale, che sono dominate da due diverse idee di giustizia, inconciliabili per una sola coscienza. L’impossibilità di assumere una delle due idee di giustizia come ingiusta produce una lacerazione insanabile: l’aspetto tragico della figura è pertanto dato dal “conflitto interiore del principe, non rivolto all’esterno. L’Amleto è il dialogo tra le due coscienze del principe danese, il loro conflitto che dilania l’infelice principe. E dal punto di vista della realizzazione scenica, si può dire che l’Amleto è un unico e gigantesco monologo”[7]. Ecco in che cosa consiste la tragicità della transizione non risolta: “Amleto, quale detentore di due principi, è un uomo che si colloca a cavallo tra due periodi: si trova nel punto di svolta, nel momento di crisi dello spirito. Due coscienze, due idee di giustizia, Amleto non ha diritto né può riconoscere una delle due idee di giustizia come ingiusta; del resto, tutte e due sono inconciliabili per una sola coscienza. Il principe di Danimarca deve necessariamente lacerarsi, e l’unica via d’uscita da questa situazione è la morte: ma riconoscendo come giustizia sia l’una che l’altra. Amleto non può esimersi dal risolvere il loro contrasto e quindi non può porre fine da solo al tragico conflitto delle due idee di giustizia. Amleto non può annientare sé stesso ma deve essere annientato, qui sta la tragicità dell’opera”[8].

Il carattere ineluttabile di questo destino è determinato dal fatto che “fino a che entrambe le giustizie restano comunque giustizie, fino a che la giustizia putrescente e la giustizia non del tutto matura si combattono, la coscienza spaccata in due geme e soffre, il cuore si spezza in due, due anime vivono nel petto. Avendo perduto la viva conoscenza dell’antica giustizia, sentendo ancora debolmente quella nuova, gli uomini violano le norme sia dell’una che dell’altra”[9]. Ecco “il tempo uscito di carreggiata”, ecco l’esigenza di rimetterlo in sesto, di riportarlo sulla giusta strada: questa profonda distorsione del tempo, questo suo snaturamento, sono una conseguenza del fatto “che la nuova coscienza (soznanie) che si esprime nella coscienza morale (sovest’) paralizza la vecchia coscienza che si esprime nel coraggio. […] Volendo essere un innovatore, Amleto si fa conservatore; e viceversa, il conservatorismo è rimpiazzato dall’innovazione”[10].

Shakespeare, secondo Florenskij, è esplicito nel descrivere, con grande efficacia, questa situazione di blocco e di stasi che imprigiona in un presente che non ha prospettive proprio perché ha smarrito il suo carattere dinamico di momento di transizione e di passaggio che deve essere realizzato e compiuto per non rimanere vittime di questa sovrapposizione di due coscienze antitetiche e dello sdoppiamento schizofrenico che necessariamente ne consegue. Lo è soprattutto nella scena I dell’Atto III: “Così la coscienza morale ci fa tutti vili, e così il colorito naturale della fermezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome di azione”[11].

Che Amleto sia profondamente cosciente di questa sua condizione e ne soffra, pur senza riuscire a risolversi a uscire dalla situazione di stallo che lo paralizza, è dimostrato dal proseguio del medesimo monologo, in cui giunge a chiedersi; “Che ci fa al mondo un essere così? Sempre a strisciare qui, tra cielo e terra?” e soprattutto dal riferimento alla sua “dieta del camaleonte: mangio aria farcita di promesse, nemmeno buona ad ingrassar capponi”. Questa dolente consapevolezza, che secondo Florenskij è l’autentico motivo conduttore della tragedia, assume un ritmo incalzante, fino al monologo della Scena IV del quarto Atto:

 

“Che cos’è mai un uomo

se del suo tempo non sa far altr’uso

che per mangiare e dormire? Una bestia.

Colui che ci ha dotati di una mente

sì vasta da vedere il prima e il dopo,

non ci largì questa capacità,

ed il divino don della ragione,

perché ammuffisca senz’essere usata.

Sia letargo bestiale o vile scrupolo

a farci pensar troppo sulle cose

(un pensare che, se diviso in quattro,

è saggezza soltanto per un quarto

e bassa codardia per gli altri tre),

io mi chiedo perché passo la vita

a ripetermi: “Questo s’ha da fare”,

quando per farlo ho causa, volontà,

e forza e mezzi. […]

Ed io qui, con un padre assassinato

e una madre insozzata, che sto a fare?

A lasciar sprofondati nel letargo

questi impulsi del sangue e della mente

e, a mia vergogna, riguardar la morte

sulla testa di ventimila uomini

che per capriccio o ricerca di gloria,

vanno alla tomba come al loro letto,

per un palmo di terra, insufficiente

puranche a contenerli tutti sopra,

o a ricoprirli quando saran morti.

Ah, siano sol di sangue i miei pensieri

d’ora innanzi, o non sian pensieri degni!”.

 

A questa tragica irrisolutezza si contrappone, dandole un risalto ancora maggiore per il contrasto che emerge in tutta la sua evidenza, la figura del Re Claudio, espressione di un deciso e rapido passaggio dal volere all’azione:

 

“Quello che noi vogliamo

dobbiamo farlo all’atto del volerlo;

perché questo ‘vogliamo’ è assai mutevole

ed è soggetto a tanti cali e indugi

quante son lingue, e mani, e circostanze.

E allora quel ‘dobbiamo’ è un desiderio

che, simile a benevolo sospiro,

ci affligge e insieme ci reca sollievo.

 

Ecco il punto: nella situazione in cui si viene a trovare Amleto ogni vera attività rivolta verso l’esterno, che abbia un autentico scopo e riesca a incidere sul corso della realtà, risulta impossibile. Il mondo esterno per lui “è più lo stimolo che risveglia le due coscienze che non l’oggetto della sua azione; il mondo esterno viene percepito e fatto oggetto di meditazione più che trattato come oggetto d’azione”[12]. Per questo “è vano cercare un tutto coerente nelle azioni di Amleto, un qualche legame ponderato. Si tratta di esplosioni isolate, improvvise e frammentarie, che si dissolvono senza lasciare traccia per l’attività successiva. L’azione, ‘l’atto’, secondo le parole di Amleto, si è disintegrata e sono rimasti soltanto i gesti”[13].

Questo è ciò che succede, inevitabilmente, quando “è lo spirito del passato che parla col presente”[14], quando il passato incombe, ipotecando e vincolando il presente, che non riesce per questo a svolgere la sua funzione di trait d’union, di cunicolo temporale verso il futuro, per cui, anziché “compiere il passaggio definitivo e irreversibile a una nuova concezione del mondo”[15], si resta intrappolati in un innaturale mix di conservatorismo e innovazione. In questo caso viene a mancare ogni possibile ricomposizione del soggettivo nell’oggettivo, dell’universo interiore nel mondo esterno (e viceversa): si resta bloccati all’interno di una coscienza dilaniata e paralizzata, che non è in grado di elaborare un progetto d’azione e di realizzarlo, ed è per questo condannata a esprimersi attraverso gesti sporadici e isolati, privi di coordinamento e quindi totalmente inefficaci.

Questo è l’insegnamento che Florenskij trae dall’Amleto pensando con tutta probabilità, dato il clima che si respirava in Russia nell’anno in cui scriveva la sua lettura della tragedia di Shakespeare, alla grave situazione di crisi del suo paese: che poteva sfociare nella paralisi di una transizione irrisolta e bloccata, fatalmente destinata a trascinarsi senza sbocco e costrutto, o imboccare la via della rottura violenta, in una palingenetica sovversione sociale alla ricerca di una dubbia rigenerazione.

 

  1. Come uscire dalla crisi: l’Anchibasìe e lo spazio intermedio

 

Amleto si macera e si dilania nel suo universo interiore e, nel suo rapporto con il mondo che lo circonda e in cui vive, tollera senza reazione apprezzabile “il marcio in Danimarca” proprio in seguito a quell’impasto di conservatorismo e innovazione che lo caratterizza e lo trattiene sulla soglia tra questi due estremi, condannandolo all’inazione.

Il celeberrimo monologo “To be, or not to be – that is the question” non è un quesito, ma un dilemma, il suo dilemma, l’espressione di un dubbio lacerante e non risolto tra il “soffrire nella mente i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna” e il “prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine”. L’«or» posto tra le due opzioni non esclude come il classico aut-aut ma include l’una e l’altra, come evidenzia la conclusione che viene tratta dallo stesso Amleto: “there’s the respect that makes calamity of so long life”. (“Ecco il dubbio che rende così longevo il nostro viver in questa calamità”).

È questa tragedia di Shakespeare, proprio per questo, a costituire per Florenskij il punto d’avvio di una riflessione che lo porta a interrogarsi sulla natura e le conseguenze del passaggio da una coppia opposizionale netta, che si esprime nella logica riduttiva dell’aut…aut, che di fronte a un dubbio esistenziale elimina una delle due alternative in gioco, a una prospettiva inclusiva, la quale al contrario ritiene possibile la compresenza di entrambe, e si interroga sulle modalità di questa coesistenza e sui suoi possibili esiti. In Amleto il risultato di questo passaggio è paralizzante, perché egli vive questa partecipazione contemporanea a due prospettive diverse come il continuo rinvio d’una scelta, che lo porta inevitabilmente ad accettare con rassegnazione la realtà così com’è.

Florenskij si chiede se si tratti di uno sbocco fatale e inevitabile o se invece l’equilibrio instabile che viene a determinarsi tra i due opposti, mantenuti entrambi in gioco, non possa innescare un processo dinamico nato proprio dalla tensione tra questi estremi e capace di trarre da essa nuove opportunità, la generazione di possibili inediti. Si tratta per lui di una questione fondamentale e ineludibile, originata dalla convinzione che essa scaturisca dalla natura profonda della stessa indole umana. Egli infatti condivide con Hegel l’idea della natura anfibia dell’uomo, la convinzione della duplicità e dell’ambiguità di fondo che lo caratterizza: “L’educazione spirituale, l’intelligenza moderna, producono nell’uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due mondi che si contraddicono l’un l’altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno o nell’altro. Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato dalla materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall’altro egli si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subito da essa”[16].

Questa sua natura anfibia pone l’uomo di fronte alla costante esigenza di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l’utopia, dall’altro, al di sotto, con la rassegnazione. Quanto sia ardua questa sfida lo dimostra quella che Hegel considerava la malattia di certe manifestazioni di utopia romantica, l’ipocondria, quell’alternanza di fasi di furore progettuale e di esaltazione e di fasi di depressione e di rinuncia che, a suo giudizio, colpisce tutti coloro che, per non volere fare i conti con la “riottosa estraneità”[17] del mondo, con la sua “burbera ritrosia”, che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, pretendono di saltare oltre la realtà, di proiettarsi nell’ideale e nel possibile senza passare attraverso il tempo presente e lo spazio in cui, di fatto, si svolge la loro esistenza quotidiana. Costoro considerano l’ideale a portata di mano e s’impegnano, di conseguenza, in una frenetica e febbrile attività per realizzarlo: salvo poi concludere, dopo ripetuti e inevitabili fallimenti, che esso è irraggiungibile e sprofondare, di conseguenza, nella rinuncia a cercare, nell’inerzia più totale e nella depressione.

Proiettarsi nell’ideale, saltando oltre il «qui» e «ora», significa spezzare la tensione e l’equilibrio instabile tra senso della realtà e senso della possibilità, sacrificando la prima all’esaltazione unilaterale di un cambiamento radicale e di un ribaltamento palingenetico dell’esistente. Questa risposta al blocco e alla paralisi che conseguono all’indecisione e alla mancanza di un’azione progettuale che miri a “rimettere il tempo in carreggiata” è simile al brutale taglio di spada con la quale si recide il nodo gordiano anziché tentare di scioglierlo. Il rischio concreto e sempre incombente, evidenziato da Hegel, è che la “riottosa estraneità del mondo” si vendichi di questa incapacità di fare i conti con essa e di pretendere di cancellarne il peso.

Ecco perché è fondamentale non troncare con l’impazienza e la violenza esibite da Alessandro l’antinomia, che è l’irriducibile, e dunque insopprimibile, espressione del fatto che l’uomo vive congiuntamente in due mondi diversi e antitetici, quello visibile e quello invisibile, ed è pertanto, contemporaneamente e in maniera ineliminabile, “il finito e l’infinito, l’animale e dio, è un’unione di angelo e bestia”, per cui, come lo definiva già Hegel, ma ben prima di lui Plotino, “è un essere dalla doppia vita, un anfibio[18]. A queste considerazioni, già di per sé significative e probanti, Florenskij ne aggiunge una ulteriore, ancora più profonda, che si richiama a uno dei presupposti fondamentali del pensiero ortodosso: il principio della théosis o divinizzazione (oboženie čeloveka). In essa svolge una funzione di primo piano l’idea di una relazione tra essere umano e realtà divina, in cui quest’ultima è icasticamente paragonata a uno specchio senza macchia, osservato da differenti punti di vista dagli esseri umani i quali, come specchi imperfetti, a loro volta riflettono la natura divina. In questo paragone c’è un’eco ben precisa della Prima lettera ai Corinzi, laddove (13:9–12) si dice:

 

poiché noi conosciamo in parte, e in parte profetizziamo;

ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito.

Quand’ero fanciullo, parlavo da fanciullo, pensavo da fanciullo, ragionavo da fanciullo; ma quando son diventato uomo, ho smesso le cose da fanciullo.

Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto[19].

 

Gregorio Palamas si riferisce esplicitamente a questo passo di Paolo di Tarso, lo riprende e lo sviluppa: “Ma ora vediamo in uno specchio”, come s’esprime il grande Paolo. Che cos’è dunque lo specchio? In esso non appare forse proprio un’ombra dell’ombra, anche quando è meno nitido e levigato? E come potrebbe mostrare qualcosa, come potrebbe essere uno specchio, e come potremmo guardarvi dentro, se in esso non vi fosse nemmeno un’ombra dell’ombra? E qualcuno che renda sé stesso uno specchio limpido di Dio e, avendo ottenuto il favore di Dio, lo custodisca dentro di sé e lo incontri intellettivamente contemplando nella luce una luce sovrannaturalmente superiore alla luce, che in nessun modo limita l’occhio che vede, come potrebbe non ricevere neppure l’ombra dell’ombra di Dio? E se con lo specchio ci riferiamo all’intelletto, e a un intelletto puro e senza macchia – natura immateriale e luce affine, se occorre dirlo, alla luce prima e più eccelsa -, esso, illuminato dalla stessa prima luce, come potrebbe non mostrare per partecipazione proprio quello che, rispetto alla causa, è l’archetipo? Come potrebbe non mostrare attraverso sé stesso la floridezza di quella bellezza nascosta, come anche il profeta dice che “lo splendore del nostro Dio è su di noi”? Come potrebbe, pur essendo e mostrandosi tale – un proguno di Cristo, un nunzio delle sue virtù – non avere neppure un’ombra dell’ombra di Dio?”[20].

Qui, attraverso questo riferimento allo specchio, si manifesta tutta la potenza cognitiva ed emotiva delle immagini e la loro funzione come strumenti e momenti imprescindibili della partecipazione al sacro e all’invisibile, dell’identificazione e dell’autentica conoscenza di sé: “Di lui, quindi, che per noi si è inumato, farai l’immagine per l’amore verso di lui, attraverso di essa ti ricorderai di lui e attraverso di essa lo adorerai: sollevando il tuo intelletto attraverso di essa a quel corpo adorato del Salvatore, il quale siede alla destra del padre nel cielo. Altrettanto farai e venererai le raffigurazioni dei santi, non come dei, poiché questo è vietato, ma attraverso la relazione e la disposizione a essi relativa e il sommo onore, perché l’intelletto, attraverso le loro immagini, si solleva fino a loro, come anche Mosé fece le immagini dei Cherubini dentro il santuario; e lo stesso santo dei santi era una raffigurazione dei sovra celesti, la sua santità portava l’immagine cosmica di tutto il mondo, e Mosé lo chiamò santo perché glorificava non le creature, ma, attraverso di esse, Dio fattore del mondo. Anche tu, quindi, non deificherai le immagini del Signore Cristo e dei santi ma, attraverso di esse, adorerai colui che a propria immagine per prima cosa ci fece e infine ci concesse benevolmente d’assumere, per indicibile filantropia, la sua immagine simile a noi, diventando definito anche grazie a essa. Ma non venererai solo la sua divina immagine, ma anche la raffigurazione della sua croce.  Infatti è segno grandissimo e trofeo di Cristo contro il diavolo e tutta la schiera contrapposta, e perciò questi tremano e si danno alla fuga quando vedono questa raffigurazione”[21].

Non è certo un caso che lo specchio e la relazione con le immagini siano considerati da Lacan, insieme al costituirsi dell’immaginario, strumenti e fasi fondamentali del processo dell’identificazione. L’espressione “stadio dello specchio” è infatti utilizzata nella psicologia evolutiva di matrice lacaniana per indicare quel processo cognitivo compreso tra i sei e i diciotto mesi di vita, in cui il bambino giunge a riconoscere l’immagine che scorge nello specchio come la propria. Posto di fronte a uno specchio il bambino dapprima reagisce con un senso di estraneità, come se potesse interagire con l’immagine che vede; solo in un secondo momento si renderà conto dello statuto immaginario di quella sua visione: infine egli giungerà a comprendere che quella che vede non solo è un’immagine, ma è la propria immagine[22].

È dunque attraverso l’immagine che lo specchio restituisce che si ha, in una prima fase, il momento di trasformazione del soggetto, il quale, proprio grazie all’immagine che lo identifica, in cui egli riconosce sé e ciò che gli appartiene, distinguendo sé dal mondo circostante, prende coscienza della propria realtà e natura.

A proposito della funzione dello specchio nel processo di divinizzazione è inoltre interessante ricordare come ancora Shakespeare, nel suo Riccardo III, all’apice drammatico della scena il cui il Plantageneto viene deposto da re legittimo, introduca nella scena uno specchio che il protagonista si fa portare per rimirarvi la sua immagine con i tratti divini del sovrano che era stato. Egli cerca quindi nello specchio la divinità perduta della sua persona: lo specchio, anche in questo caso, definisce pertanto la quidditas dell’uomo come imago dei.

La comunione con la divinità, secondo Gregorio Palamas e l’intera tradizione ortodossa di cui la sua opera fu punto di riferimento indiscusso, viene raggiunta anche con la “preghiera del cuore”, che non è un atto formale e una pura espressione dell’oralità, ma una pratica attraverso la quale l’individuo si trasforma, realizzando un rapporto personale con la divinità, e che coinvolge il corpo, la mente e lo spirito. Il metodo della “preghiera del cuore” aveva le sue radici nella tradizione spirituale del monachesimo orientale ed era stato rinnovato ad opera di Gregorio il Sinaita (1255 – 1346). Influenzato dall’esperienza spirituale di Giovanni Climaco, autore della Scala Paradisi ed esponente di rilievo della spiritualità esicasta del Monte Sinai, Gregorio il Sinaita introdusse la pratica della preghiera di Gesù sul Monte Athos, trasformandolo in un centro di irradiazione dell’esicasmo.

Centrale nella sua proposta è il tema dell’“energia” conferita dallo Spirito Santo all’atto del Battesimo. Per trovarla dentro di sé, il fedele ha due possibilità: attraverso “la pratica, a prezzo di sforzi prolungati, dei comandamenti” oppure “mediante la sottomissione, raggiunta con l’invocazione metodica e costante del Signore Gesù, cioè con la memoria di Dio”. La preghiera, che si qualifica come “l’instancabile azione dello Spirito che comincia nel cuore come fuoco gioioso e termina in una luce che diffonde un odore soave”, suscita nell’orante “l’energia della grazia”, che “consolida, riscalda e purifica l’anima, acquieta i pensieri agitati” e ha, tra i segni inconfondibili della sua presenza, “le lacrime, il cordoglio delle colpe, l’umiltà, il dominio delle forze fisiche, il silenzio, la pazienza, l’amore per la solitudine” “Lo Spirito” – sottolinea Gregorio – “opera in ciascuno secondo il suo beneplacito” e può risvegliare nella persona due distinte “maniere di unione a Dio: una si ha quando la mente ‘aderendo strettamente al Signore’ entra rapidamente nella dimora della preghiera; l’altra quando l’attività orante si svolge gradatamente e mediante un fuoco gioioso esercita la mente e la tiene ferma con l’invocazione unitiva del Signore Gesù”[23].

In continuità e in stretta aderenza con questi dettami l’esicasmo, sistema spirituale di orientamento che ricerca la perfezione dell’uomo nell’unione con Dio tramite la preghiera incessante, articola in tre livelli il cammino di questa preghiera. Il primo è la preghiera vocale, che coinvolge però l’uomo in tutta la sua corporeità, perché esige l’intervento e la partecipazione non solo delle labbra, della lingua e della voce, ma anche della postura. I Padri la considerano come “il primo approccio alla carne di Gesù”: le parole vengono pronunciate ad alta voce, oppure sommessamente e silenziosamente dalle labbra e dalla lingua. Mentre si recitano, l’attenzione deve sostare sul significato delle parole pronunciate, che devono essere piuttosto costanti e ripetitive.

La preghiera mentale fa invece appello all’attività intellettuale e riflessiva. È concepita come una fase intermedia, di passaggio, che serve unicamente come preparazione della “preghiera del cuore”. Si ha quando la mente ripete la formula senza il concorso delle labbra e della lingua, per acquisire un maggior grado e una migliore facilità di concentrazione e riflessione. La preghiera assume spesso un ritmo proprio, a volte “canta” spontaneamente, senza alcun atto cosciente della volontà, come un piccolo ruscello che mormora, secondo la felice espressione dello starec Partenio.

Si attinge l’autentica preghiera spirituale quando essa diventa un sospiro del cuore verso Dio, uno stato contemplativo. Solo questa è la vera “preghiera del cuore”, orazione dell’uomo nella sua interezza, corpo, mente e spirito, che permea tutta la personalità. Il suo ritmo s’identifica sempre più con il battito del cuore, finché giunge a essere incessante: in questo stadio all’orante è fatta la grazia di contemplare la luce taborica e l’uomo trasfigurato compie così la sua “missione ontologica”, secondo il comandamento di Gesù: «Voi siete la luce del mondo»”[24].

Ricordiamo a questo proposito che nella cultura russa e nella religione ortodossa il tema della trasfigurazione ha un’importanza fondamentale. Esso è strettamente legato, appunto, alla funzione determinante assegnata alla luce, in particolare a quella luce che gli apostoli videro risplendere sul monte Tabor attraverso la carne e la veste di Cristo: “[Egli] fu trasfigurato di fronte a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”[25]. Gli ortodossi la chiamano perciò luce taborica e spiegano che sul monte Tabor a cambiare non fu il corpo di Cristo, da sempre e per sempre divino-umano, ma gli occhi degli Apostoli, resi in quel momento capaci di vedere la divinità, come a dire ciò che è naturalmente invisibile. Questo ruolo speciale della luce della trasfigurazione è, non a caso, oggetto del primo anatema del Synodikon, che afferma testualmente: “Sia anatema chi nega che ‘La luce che ha brillato durante la trasfigurazione del Signore non è né creatura né sostanza di Dio, ma grazia increata, splendore ed energia che proviene eternamente senza dividersi dalla stessa divina sostanza’”[26].

Proprio per questo nel Canone dell’ortodossia rientra, come aspetto specifico, la lode della luce taborica: “A coloro che confessano che la luce ha brillato indicibilmente sulla montagna della trasfigurazione del Signore è inaccessibile, luce infinita, effusione inconcepibile dello splendore divino, gloria ineffabile, gloria suprema dell’umanità, gloria primordiale e atemporale del Figlio, regno di Dio, bellezza vera e amabile della divina e beata natura, gloria naturale di Dio e della divinità del Padre e dello Spirito, risplendente nell’unico Figlio […], eterna la loro memoria”[27].

Di particolare interesse è il modo in cui questo riferimento cruciale alla luce taborica incide sul concetto di rappresentazione. Nel mondo ortodosso l’icona non è semplicemente una raffigurazione o una contemplazione del mondo ultraterreno, dell’invisibile. Essa è invece la reiterazione del miracolo del monte Tabor, una partecipazione ricorrente a esso: il fondo oro rappresenta (o, per essere più precisi, fa presente) la luce taborica che permea il mondo della quotidianità del tocco vivificante dello spirito e, attraverso il potenziamento dello sguardo di che l’osserva e lo abita, lo trasfigura, gli conferisce un nuovo significato, del tutto diverso da quello originario e usuale. Attraverso il reiterarsi di questo processo di trasfigurazione le immagini si caricano di un’ambiguità che scatena una violenta emozione estetica e proprio per questo risulta essenziale per percepire ciò che non è possibile (o è comunque estremamente arduo) comprendere ed esprimere con le parole.  Lo sfondo dorato sopprime ogni sorgente definita di luce nella composizione iconografica che non sia la luce taborica, la presenza vivificante dello spirito che si manifesta nella luminosità dell’icona stessa. Questa specifica tecnica di rappresentazione fu messa a punto da Teofane (ca. 1335 – ca. 1410) pittore della scuola cretese, e portata al massimo splendore, nel periodo definito “Rinascimento di Novgorod”, dal monaco Andreij Rublëv (1360 – 1430), con il quale la pittura delle icone divenne sempre più un esercizio spirituale, una preghiera interiore, che richiedeva una lunga preparazione, un laborioso affinamento interiore e uno spirito di devozione al quale veniva improntato persino ogni singolo gesto operativo. Non a caso gli autori di icone erano generalmente monaci, tenuti a dipingere come prima loro opera la trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, proprio per entrare a loro volta nella luce taborica ed esserne illuminati. Riferendosi ai risultati del loro lavoro Rudolf Steiner osserva come essi in realtà nascano direttamente dal mondo spirituale. Non si riesce a immaginare uno spazio fisico dietro una Madonna russa. Si deve pensare che dietro il quadro vi sia il mondo spirituale e che da quel mondo, visto in modo vivo, sorga il quadro[28].

L’icona non è dunque soltanto un’immagine, una rappresentazione, ma uno strumento operativo per mettere in comunicazione reciproca infinito e finito, mondo ultraterreno e realtà quotidiana. Per questo essa può essere considerata la specifica incarnazione dello spazio intermedio tra questi due domini, che li distingue e separa ma al tempo stesso li pone in comunicazione reciproca e in interazione, fungendo da “barriera di contatto”. Questo confine, per la sua duplice natura di linea di demarcazione e di collegamento, predispone la mente a far confluire, in una situazione critica di equilibrio instabile e quindi di tensione dinamica, il mondo dell’esperienza e quello al di là di essa, e a sovrapporli, leggendo e interpretando il visibile alla luce dell’invisibile. Ciò risulta possibile in virtù del fatto che la luce taborica, investendo la realtà fenomenica, non viene assorbita parzialmente o totalmente, né la attraversa senza perdita di energia, come se questa realtà non fosse sul suo cammino e risultasse invisibile alla luce che si propaga. Viene invece a determinarsi uno stato di translucidità, intermedio tra la prima condizione, quella dell’opacità, e la seconda, quella della trasparenza,  che consente di distinguere approssimativamente la forma, ma non i contorni, di ciò che viene visto attraverso il filtro costituito da esso, il cui senso emerge solo nella fase conclusiva di questo specifico tipo di esperienza.

La luce taborica è pertanto l’espressione concreta del modo in cui gli uomini possono partecipare alla rappresentazione dell’invisibile, di ciò che è inaccessibile ai sensi e allo stesso pensiero, l’immagine di Dio, l’icona del Cristo totale, Dio-uomo. Come scrive San Paolo nella II lettera ai Corinzi: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”[29].

L’immagine è quindi strumento di partecipazione e di trasformazione, è il mezzo grazie al quale, come dice Gregorio di Nissa, “essendosi avvicinata alla luce, l’anima si trasforma in luce”[30], ciò che permette all’uomo di diventare pneumatoforo, “portatore dello Spirito”, tempio dello Spirito, fino a partecipare alla natura di Dio.

Florenskij, che dello spirito genuino dell’ortodossia è un esponente geniale e originale, scrive che questa specifica modalità di rappresentazione porta alla costituzione di uno spazio che è, contemporaneamente, parte del reale e distinto dalla realtà. Uno spazio nel quale “si incontrino immanenza e trascendenza, profondità e altezza, le cose di questo e le cose dell’altro mondo, l’assoluto e il relativo, il corruttibile e l’incorruttibile”. Questo spazio “è una finestra nella nostra realtà dalla quale si vedono gli altri mondi. È una breccia nell’esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dall’altro mondo, nutrendola e rinvigorendola. In breve: questo spazio è il culto[31].

Questa reciproca fusione di finito e infinito pone però un problema di fondo, che non a caso Florenskij colloca al centro della sua riflessione. Per poter realizzare questo incontro con l’infinito l’Io, in particolare, deve saper rinunciare al mondo tranquillizzante dell’evidenza empirica e della contingenza, alle credenze che nascono e si consolidano sulla base di esso, per cercare principi esplicativi che vadano al di là delle apparenze e sappiano cogliere le strutture soggiacenti ai vari ambiti dell’esperienza, quelle capaci di cogliere i nessi che li collegano e di restituire così il senso autentico di ciascuno di essi. Innalzarsi a un pensiero nel quale ambedue i fondamenti del raziocinio, cioè i principi della finitezza e dell’infinitezza, siano presenti e diventino in effetti uno solo significa in primo luogo fare piazza pulita della tendenza a considerare l’ambiguità un’incrinatura della razionalità, come accade in seguito all’egemonia del terzo escluso – l’aristotelico tertium non datur – secondo cui una sostanza non può possedere contemporaneamente qualità opposte, facendo così finta di non vedere che l’ambiguità si trova dappertutto, e assurge a un ruolo essenziale al punto critico di ogni trasformazione strutturale: in natura, nella società, attorno a noi e innanzitutto all’interno della nostra mente. In secondo luogo vuol dire sbarazzarsi della pretesa dell’autosufficienza dell’io, dei suoi interessi limitati, di quegli stati di evanescenza in cui il mondo interiore si perde nell’esteriorità, e recuperare la straordinaria ricchezza delle possibilità interpretative e delle risposte di cui l’essere umano, nella sua unicità e irripetibilità, è espressione. Percepire la presenza dell’infinito nel finito aiuta a comprendere che il significato della vita sfugge irrimediabilmente se la si rinchiude nell’orizzonte di una sua singola espressione e manifestazione e che l’uomo è sovrano nella misura in cui è consapevole che essere padrone di sé, avere il pieno possesso di sé, vuol dire saper pensare e agire anche nell’interesse e a vantaggio degli altri e della vita nel suo complesso, fino al punto di essere disponibile a una perdita intenzionale, a un sacrificio personale per favorire il benessere comune. L’uomo, dunque, non deve pensare a sé stesso come una realtà centrata, strutturata attorno a un “nucleo”, bensì deve percepirsi come un qualcosa di fondamentalmente acentrato, caratterizzato dal riferimento all’idea di bordo, di confine, un confine pensato, ancora una volta, come “barriera di contatto”, e quindi nella duplice accezione di linea di demarcazione, che separa e distingue, e di trait d’union, anello di congiunzione che lo lega in modo imprescindibile all’altro da sé.

In qualsiasi maniera si voglia impostare la questione della partecipazione del finito all’infinito e della loro possibile convergenza in un processo che approdi a una relazione costitutiva di reciproca fusione è pertanto indispensabile poter fare riferimento a uno spazio intermedio, a una realtà di confine, attraverso i quali la coesistenza e convergenza suddette e la partecipazione che ne costituisce l’approdo vengano non solo concettualizzate, ma realizzate concretamente.

Se si vuole dunque tener conto di questa fondamentale caratteristica della persona umana, che in quanto anfibia vive e non può che vivere congiuntamente in due mondi opposti, e non eludere l’esigenza di affrontare la tensione insita in questa specifica condizione, la soluzione non può essere certo quella di fare a meno del riferimento a una di queste due dimensioni, cancellandola in nome di una pretesa omogeneità, dato che una simile scelta costituirebbe un impoverimento intollerabile della ricchezza dell’universo interiore dell’uomo e un’inaccettabile riduzione unilaterale della sua complessa articolazione a un aspetto parziale.  Occorre invece approfondire le modalità e le forme di questa coesistenza: la prospettiva inclusiva, che contempla la compresenza degli opposti e l’equilibrio instabile tra di essi, è dunque la sola in grado di dare adeguatamente conto della situazione effettiva dell’uomo, ed essa non può avere soltanto gli esiti paralizzanti a cui conduce nel caso di Amleto. Altrimenti la condizione umana sarebbe disperante e priva di sbocchi, mentre invece non mancano, come si è visto, gli strumenti operativi di cui essa dispone per garantire il raccordo, sul piano ontologico, tra terra e cielo, tra mondo empirico e realtà ultraterrena, e sul piano epistemologico tra i due fondamenti del raziocinio, il principio della finitezza e quello dell’infinitezza.

È dunque necessario individuarne uno sbocco alternativo, basato sul riferimento analogico a quel processo attraverso il quale l’uomo riesce, da sempre e in modo concreto ed efficace, a trasformare le crisi in opportunità, i pericoli di paralisi o addirittura di regressione in concrete possibilità di crescita: quello della conoscenza. Per delinearne i tratti salienti si può utilmente prendere in considerazione il seguente dialogo tra uno scienziato e un esperto, tratto Da un colloquio sul pensare lungo un sentiero tra i campi, che troviamo nella seconda parte de L’abbandono di Heidegger:

 

Scienziato: Mi pare che questa parola di Eraclito Anchibasìe, che significa “approcciare”, sia un termine eccellente per indicare l’essenza del conoscere: infatti quel muoversi alla volta degli oggetti, quell’avvicinarsi a essi che caratterizza il conoscere giungono qui a espressione in modo convincente […]

Esperto: “Anchibasìe”; andare-nella-prossimità. Ora mi sembra che questo potrebbe essere il nome che meglio si adatta al nostro odierno cammino lungo un sentiero tra i campi.

Maestro: Che ci ha guidati nella notte profonda…

Scienziato: che sempre più magnifica espande in alto il proprio splendore…

Esperto: fa traboccare la sua meraviglia sopra le stelle…

Maestro: in cielo approssima le loro lontananze l’una all’altra…

Scienziato: gli occhi dell’osservatore ingenuo non meno che a quelli dello scienziato esperto.

Maestro: Per il bambino che è racchiuso nell’uomo la notte resta sempre Colei che approssima le stelle.

Esperto: Colei che le tiene assieme senza fare cuciture, senza mettere orli, senza usare fili.

Scienziato: Diciamo “Colei che approssima” perché essa lavora soltanto con la prossimità”[32].

 

Anchibasìe: muoversi alla volta degli oggetti e avvicinarsi a essi gradualmente, nella prossimità”. Quale concezione del tempo vi sia alla base di questo atteggiamento Heidegger lo chiarisce in modo esplicito attraverso la contrapposizione tra il pensiero calcolante e il pensiero meditante.

La particolarità del primo consiste nel fatto che “quando facciamo dei progetti, compiamo delle ricerche o intraprendiamo delle attività, non possiamo non fare i conti (“rechnen”) con determinate circostanze. Le mettiamo sempre in conto (“WIR stellensie in Rechnung”), e in un conto che è costituito dalle nostre intenzioni commisurate (“berechnet”) a determinati scopi. Contiamo (“rechnen”) infatti già in precedenza su determinati risultati. Questo ‘contare’ (“rechnen”) caratterizza ogni pensiero che è all’opera nei progetti e nelle ricerche scientifiche. Un tale pensiero è sempre un calcolare (“rechnen”), anche quando non compie operazioni con i numeri, anche quando non fa uso delle macchine calcolatrici e dei grandi calcolatori elettronici. Il pensiero che fa i conti, che tiene in conto, che mette in conto, è un pensiero che calcola (“Das rechnende Denken kalkuliert”)”[33].

La seconda modalità di pensiero, “il pensiero meditante, non avviene senza sforzo, quasi da sé – e in questo è simile al pensiero calcolante. Il pensiero meditante richiede invece uno sforzo ancora più elevato, esige un apprendistato ancora più lungo, abbisogna di un’accuratezza ancora più raffinata di quella che caratterizza un qualsiasi altro mestiere vero e proprio. Ma è necessario anche saper attendere, come fa il contadino, che il seme cresca e giunga a maturazione”[34].

Oltre a questa attesa per un buon esito occorre un’altra condizione: “Meditiamo più a fondo e domandiamoci: lo sbocciare di un’opera ben riuscita non comporta forse il suo radicarsi in seno alla propria terra? Johann Peter Hebel ha scritto una volta: ‘Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire nell’etere e dare i loro frutti’. (“Werke”, ed. Altwegg III, 314). Il poeta vuol dire: perché riesca a sbocciare un’opera dell’uomo che porti autentica gioia e giovamento, è necessario che l’uomo possa espandersi nell’etere, radicandosi nel profondo seno della propria terra. Etere qui significa: l’aria libera che spira nelle altezze del cielo, la regione aperta dello spirito”[35].

Mi sono voluto riferire a quest’opera di Heidegger perché essa, come appare con chiarezza nel passo appena citato, evidenzia uno dei tratti caratteristici del pensiero meditante, che sa perseverare nelle incertezze, senza lasciarsi sedurre dall’illusione di agitate soluzioni precoci, in attesa che il seme cresca e giunga a maturazione, ma poi, una volta che ciò accada, non si attarda più a indugiare e ne sa cogliere i frutti, prima che essi rischino di marcire. Chi medita sa dunque trattare l’ambiguo, attraversare territori poveri di senso, sperimentare disarticolazioni, vuoti, e da lì approdare su sponde nuove, che offrono significati inediti.

Florenskij approfondisce queste caratteristiche essenziali del pensiero meditante, soprattutto la tendenza e l’attitudine a trattare l’ambiguo e a “crescere ben radicato nella terra per fiorire nell’etere”, mettendone in luce un aspetto aggiuntivo fondamentale, la capacità di sospensione con l’introduzione di uno scarto e di una distanza che sono l’espressione non di un blocco, ma del desiderio e della volontà di una ricerca dell’ulteriorità, di un procedere verso un qualcosa che si colloca oltre il confine delle nostre capacità intellettive e di cui, ciò nonostante, si avverte la presenza e l’incidenza. È proprio il riferimento a questa presenza/assenza che ci assiste e ci supporta nello sforzo di superamento continuo dei limiti di volta in volta raggiunti, nel tentativo di cercare di mettere a fuoco sempre meglio quell’ambiguità, fatta di nuclei di realtà non integrati, che siamo noi stessi.

Questa irriducibile ambiguità è l’espressione del fatto che tra i due mondi contrapposti in cui si svolge la vita dell’uomo, quello dell’invisibile e del visibile, si manifesta, come si è visto, uno spazio intermedio, una barriera di confine, e contemporaneamente di contatto, che rende possibile l’interazione tra realtà terrena e realtà ultraterrena e le mette in condizione di vedersi reciprocamente, sia pure in modo fuggevole. È, non a caso, riferendosi all’icona come strumento operativo di raccordo tra i due mondi nel saggio dal titolo Le porte regali, a essa dedicato, che Florenskij esprime nel modo più sintetico ed efficace questa complessa situazione: “Tuttavia la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì unisce. […] Sì, la vita della nostra anima ci dà il punto d’appoggio per conoscere questo confine che mette in contatto i due mondi, infatti anche in noi la vita nel visibile si alterna alla vita nell’invisibile, sicché c’è un attimo di tempo, sia pur breve, sia pure concentrato al massimo, talvolta fino all’atomo di tempo – quando i due mondi si toccano e ci diventa contemplabile perfino questo congiungimento. In noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso a esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco, invisibile soffia un alito che non è di quaggiù: questo e l’altro mondo si aprono l’uno all’altro e la nostra vita è sollevata da un fiotto incessante, come quando la temperatura fa salire in alto l’aria calda”[36].

Proprio per il suo duplice carattere di demarcazione e nello stesso tempo di mediazione e di incontro tra dimensioni eterogenee questo spazio non può che essere simbolico. Ecco perché l’intero percorso del pensiero di Florenskij è caratterizzato dal ricorso allo strumento del simbolo, come egli stesso dichiara esplicitamente in una lettera ai figli nella quale così sintetizza lo sforzo costante della sua ricerca: “Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento del noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del simbolo. Lo sguardo dell’intelletto andava in diverse direzioni, così com’erano diversi gli oggetti che mi passavano di fronte. Non ero io a passare di fronte a loro, tuttavia, perché io ne stavo cercando uno solo, sempre e solo uno, e anche dentro di me ero intento a una sola cosa, sempre e solo una. Cercavo il fenomeno in cui il tessuto strutturale era più elaborato delle forze che lo formavano, in cui la penetrabilità della carne del mondo era maggiore, in cui la scorza delle cose era più sottile, e in cui più chiara traluceva l’unità spirituale. Ma forse non mi sto esprimendo al meglio. Il fatto è che per me il rapporto tra ciò che riluce e ciò che traluce, tra cosa e scorza, non è mai stato esteriore. Non ho mai cercato di contemplare quest’unità spirituale al di fuori e indipendentemente dalla sua manifestazione”[37].

Per capire come si possa instaurare concretamente questa relazione tra “ciò che riluce” e “ciò che traluce” e comprenderne la natura occorre partire dal fatto che il simbolo, nel suo significato originario, è un segno di riconoscimento la cui efficacia come tale consiste nel far coincidere e combaciare due parti materiali distinte in un bordo che al contrario non ha alcuna consistenza materiale, per cui può essere considerato un nulla dal quale però scaturisce una precisa conseguenza fattuale. Analogamente il mondo intermedio tra visibile e invisibile nella sua manifestazione originaria è un nulla eccitante, una assenza/presenza, dunque, una linea di confine, un bordo tra due mondi che consente, come risultato concreto, il contatto e il mutuo riconoscimento tra di essi.

Il ricorso al simbolo è generalmente associato a un’apertura al mondo delle possibilità, a una progettualità non ancora definita nei suoi contorni, e quindi è l’espressione di uno sguardo che la psiche volge verso un orizzonte di attesa, che in quanto tale è qualcosa che ancora non c’è. Esso può pertanto essere considerato a buon diritto lo strumento di un’indagine basata sulla propensione a “pensare e a vedere altrimenti” rispetto all’effettualità, a ciò che è disponibile qui e ora, e in questo senso va visto come la manifestazione di una tendenza utopica, che si palesa sotto forma di quella che viene chiamata un’interpretazione prospettica. Si tratta di un processo che rimanda bensì a qualcosa, ma non nella modalità con cui un significante rimanda a un significato, bensì nella modalità con cui un significante avverte l’interprete della presenza di un significato nascosto, trattenuto dentro di esso, non esplicitabile, non separabile dall’espressione del simbolo stesso.  Florenskij, nel far propria questa accezione, assume e mette in risalto dello strumento simbolico il carattere della ‘composizione’, nel senso della capacità di “porre insieme”, “mantenere uniti” (componere) aspetti che, per il pensiero razionale sono separati e opposti. Più che a significare, dunque, esso vale a mettere in relazione aspetti usualmente disgiunti e a riuscire a mantenerli collegati pur nella loro reciproca tensione. Questa componibilità, che presuppone la presenza di due elementi polari fatti confluire in un’unità esente da ogni forma di transitività semantica, viene, come si è visto, da lui arricchita con l’introduzione di un terzo elemento imprescindibile, quello che egli chiama lo skačok, lo spazio intermedio, dove deve realizzarsi una forma embrionale d’incontro e di “ibridazione” tra di essi che, pur non sfociando in una sintesi, e quindi nella disponibilità di un significato in qualche modo definito, non si limiti tuttavia ad alimentare un semplice stato di tensione creativa e di attesa.

Proprio per la centralità che ha nel pensiero di Florenskij il simbolo, come viene ribadito a più riprese da lui stesso, non è una semplice rappresentazione o allegoria, né tanto meno un puro segno o rimando, bensì “una realtà che è più di sé stessa”[38]: “Il simbolo è qualcosa che è più di sé. Per esempio: il quadro come realtà consiste nella tela, nei colori, nella cornice, nel telaio, ma esso è di più, come essenza, di quello che è nell’ordine della realtà fisica. È una finestra. Il simbolo metafisico è un’essenza la cui energia porta con sé l’energia di un’essenza ‘altra’, superiore, dissolta in essa, e a essa unita, e quello che attraverso di essa si manifesta rivela un’essenza superiore. Il simbolo è una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente”[39].

Per questo esso abita il confine tra l’esterno e l’interno, tra il fenomeno e il noumeno, tra la forma e il significato, testimoniando nelle proprie manifestazioni ed espressioni l’unità e la differenza delle due sfere. Per questo è il “luogo” del rivelarsi di ciò che viene simboleggiato, è in qualche modo parte dell’alterità e dell’ulteriorità alle quali rinvia.

In coerenza con questa funzione che gli viene attribuita il simbolo, nella sua espressione più alta, quella della parola, esprime nel modo migliore e rispecchia la natura ambigua dell’uomo perché esso stesso si presenta come “un’entità anfibia, che vive sia nell’uno, sia nell’altro, intesse specifiche relazioni tra questo e quel mondo, e tali relazioni, per quanto l’occhio del positivista stenti a percepirle, tuttavia esistono e stanno alla base di tutte le ulteriori funzioni della parola. Questa base, evidentemente, punta a due direzioni: anzitutto muove da colui che parla verso l’esterno, come attività che da colui che parla esce fuori verso il mondo; in secondo luogo, in quanto percezione che riceve colui che parla dal mondo esterno, va verso colui che parla. Detto altrimenti: attraverso la parola la vita viene trasformata e assimilata allo spirito. O ancora: la parola è magica ed è mistica. Considerare l’aspetto magico della parola significa comprendere come e perché noi possiamo agire nel mondo tramite la parola”[40].

La parola assume così il ruolo di elemento costitutivo fondamentale di quella trama (fili di connessione), grazie alla quale l’uomo costruisce progressivamente, tra i due mondi contrapposti (quello esterno e quello interno) uno spazio intermedio, quello della cultura. Essa è “il soggetto conoscente e l’oggetto da conoscere, le cui energie unite la tengono in essere”[41] e proprio per questo fa emergere in modo immediato il fatto che: “nell’atto della conoscenza il soggetto non può essere separato dal suo oggetto: la conoscenza è contemporaneamente l’una e l’altra cosa insieme; più precisamente, è conoscenza dell’oggetto attraverso il soggetto, un’unità in cui si può distinguere l’uno dall’altro soltanto nell’astrazione, mentre attraverso tale unità l’oggetto non viene distrutto nel soggetto, né il soggetto si dissolve nell’oggetto della conoscenza che esiste al di fuori di esso. Unendosi, essi non si fagocitano a vicenda, sebbene, pur mantenendo la loro autonomia, non rimangano neppure separati”[42].

A evidenziarlo è la struttura stessa della parola in quanto totalità, unione tra fonema e semema: “Sul piano linguistico tale unione è costituita dal morfema, in quanto da un lato esso determina i suoni dei fonemi, e dall’altro sviluppa, a partire dal significato originario della parola che pure è dato dal morfema, tutta la pienezza dei depositi del semema. Anche il punto di concentrazione magico della parola sarebbe da ricercare nello stesso punto dove abbiamo rinvenuto il centro di concentrazione linguistico. Se attraverso il morfema, che rappresenta la duplicità di suono primario e senso primario, si salda nella parola il suono e il senso, allora bisogna supporre che, nella sua sfera magica, il morfema della parola unisce in sé l’effetto ultrafisico del fonema e l’effetto infrapsichico del semema, agendo così in entrambe le direzioni, oppure, più precisamente, produce degli effetti che si trovano tra la sfera puramente fisica e la sfera puramente psichica, fa cioè parte della sfera celata nel senso diretto della parola”[43].

È proprio la sua natura anfibia, dovuta al fatto che essa vive in due ambienti diversi, che le consente di svolgere una decisiva e imprescindibile azione di mediazione tra di essi.  Ecco perché “la parola guida lo spirito al di là dei confini della soggettività e lo mette in contatto con il mondo che si trova oltre i nostri stati psichici. Grazie alla sua natura psico-fisiologica la parola nel mondo non svanisce come fumo, ma piuttosto ci mette faccia a faccia con la realtà e può pertanto, toccando il suo oggetto, essere riferita allo stesso modo sia alla rivelazione dell’oggetto in noi, sia alla nostra rivelazione in lui e di fronte a lui[44].

Essa è dunque lo strumento fondamentale di costruzione dello spazio intermedio tra universo interiore e mondo esterno, tra visibile e invisibile, tra finito e infinito, estremi opposti tra i quali getta ponti che ci consentono di collegare ciò che era separato: “È come prima del temporale: la parola è il lampo che straccia il cielo da est a ovest e rivela in senso incarnato: nella parola vengono compensate e unite le energie accumulate. La parola è un lampo, non è l’una o l’altra energia, ma un nuovo fenomeno energetico, costituito da due unità, una nuova realtà nel mondo: un canale di collegamento tra ciò che finora era separato. La geometria insegna che per quanto breve sia la distanza tra due punti nello spazio, può essere stabilito un collegamento in cui la distanza equivale a zero. La linea di tale collegamento è il cosiddetto isòtropo, Stabilendo un rapporto isotropico tra due punti, questi vengono direttamente in contatto l’uno con l’altro. Il pronunciare la parola può essere così paragonato a un contatto del conoscente con ciò che dev’essere conosciuto nell’isòtropo: seppur separati l’uno dall’altro nello spazio, si rivelano uniti. La parola è un isòtropo ontologico[45].

Utilizzare in modo appropriato questa funzione di confine e di mediazione tra il mondo visibile e il mondo invisibile, tra il soggetto conoscente e l’oggetto da indagare, tra il finito e l’infinito che il simbolo in generale e la parola in particolare svolgono è l’unica possibilità di cui l’uomo possa disporre per non precipitare nell’inferno già nel corso della sua vita terrena. Il termine “Ade”, infatti, allude alla lacerazione infernale della realtà che si produce in seguito all’incapacità di pensare il confine tra gli elementi e gli aspetti suddetti come ambito in cui, giova ripeterlo, le realtà coinvolte nella relazione “unendosi, non si fagocitano a vicenda, sebbene, pur mantenendo la loro autonomia, non rimangano neppure separate”. Proprio per questo l’inferno è il luogo, lo stato dove non c’è visibilità, dove non si vede. Insomma, esso “è la tenebra, l’oscurità, il buio, σκότος[46].

Il carattere anfibio della parola e del simbolo in generale, con le loro duplici facce rivolte, da una parte, verso il mondo esterno, dall’altra, verso l’universo interiore, riguarda e coinvolge anche il rapporto tra finito e infinito, tra visibile e invisibile. Essi sono quindi gli strumenti che ci consentono il transito attraverso la frontiera di questi mondi accedendo alle fonti del senso.

Proprio per la sua natura anfibia, che lo orienta costantemente verso la considerazione non solo del mondo esterno, ma anche di quello interiore dell’uomo, il simbolo ha, congiuntamente e ineliminabilmente, questo duplice carattere di riferimento vincolante al senso della realtà, e, nello stesso tempo, di apertura costante verso la sfera dei possibili. Ed è grazie a questa specifica caratteristica del simbolo che l’arte, quella autentica, espressione e manifestazione primaria della capacità progettuale dell’uomo, si presenta, secondo Florenskij, come un accesso alle fonti del senso, cercato seguendo la strada del volo, cioè del transito attraverso la frontiera dei mondi, quello del visibile e quello dell’invisibile, quello della realtà esterna e quello del mondo interiore dell’uomo. Situazioni come quella così efficacemente descritta da Shakespeare nell’Amleto sono dunque tipiche di tutti quei momenti di rottura e di crisi, nei quali si deve mettere in discussione lo stile di pensiero e la forma di vita precedenti al punto di esserne “scaraventati fuori”. Si tratta delle circostanze alle quali, secondo Cora Diamond[47], guardava con particolare interesse Wittgenstein e che lo spingono a esplorare l’idea che il linguaggio contempli una varietà di possibilità talmente aperta e complessa, non prestabilita dall’inizio, ma in larga parte da determinare, da includere anche l’opzione di mettere in discussione il proprio orizzonte concettuale e di esserne, appunto, come scaraventati fuori. Già il Tractatus, secondo questa lettura, stabilisce esso stesso come opera questo tipo di rovesciamento e di svuotamento, quando chiede al lettore di abbandonare le proposizioni che lo compongono e di riuscire a riconoscerle come insensate, una volta che le abbia seguite e sia risalito su di esse come su una scala. La coincidenza di etica ed estetica, che Wittegenstein propone esplicitamente nella proposizione 6.421 che così recita: “È chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale. Etica ed estetica sono uno”[48], prospetta ed esige, da questo punto di vista, un tipo di esperienza basato sulla consapevolezza che le parole non bastano per esprimere la ricchezza dell’universo interiore e del suo rapporto con l’ambiente esterno. Pertanto “v’è davvero dell’ineffabile” (6.522), e il mondo si “vede rettamente” (6.54) solo una volta che le proposizioni di cui ci si è serviti come una scala per salire i diversi gradini della comprensione concettuale vengono superate e si riesce a fuoriuscire dall’orizzonte e dal contesto che ne scaturisce e a essere scaraventati all’esterno di essi. Attraverso questa esperienza, anziché procedere con immagini che sostituiscono la vita che abbiamo con le parole e i pensieri e fabbricare stili percettivi e cognitivi che imponiamo alla realtà, perveniamo a dissolvere questa tranquillizzante aderenza della realtà medesima alle nostre espressioni linguistiche e ai nostri schemi concettuali, a riscoprirne la resistenza e l’attrito rispetto a questi ultimi, senza per questo cadere in preda al panico o cedere alle lusinghe e alle trappole delle forme ricorrenti di scetticismo. Queste si accontentano di prendere atto della constatazione, in sé piuttosto banale, del fatto che la realtà e il nostro pensiero possano non incontrarsi, non aderire l’uno all’altra. Il difficile e il bello sta nella sfida di collocarsi nell’impossibile e di viverlo, di sentire la compresenza e la coincidenza degli opposti che normalmente il pensiero razionale considera mutuamente esclusivi e di contemplarle come un qualcosa che rientra pienamente in quel gioco linguistico. Ecco tutta la forza propulsiva e trasformatrice dell’ambiguità correttamente interpretata e vissuta!

Sentire la compresenza degli opposti senza farsene paralizzare e senza rimanere intrappolati all’interno di essa, ma andando invece risolutamente alla ricerca di uno sbocco, di un’uscita da questa situazione di stasi. Questo è il gioco di cui Amleto non ha saputo essere protagonista: un gioco che, per riuscire, come si è visto, richiede la capacità di continuare ad andare avanti, ad approssimarsi, senza interrompere la transizione verso una nuova fase del faticoso cammino di anchibasìe. Amleto era consapevole che il tempo non può rimanere a lungo “fuori dei cardini” e che bisogna avere la capacità di rimetterlo in moto: e si sentiva un “disgraziato” proprio perché percepiva la propria inadeguatezza rispetto a questo compito, la sua incapacità di spostare avanti la frontiera fra conservatorismo e innovazione, tra vecchio e nuovo ordine.

  1. Il superamento della stasi e della paralisi

Che l’uomo abbia i mezzi per evitare che la crisi di una forma di vita o di uno stile di pensiero si trasformi in blocco e in stasi e in che cosa consistano oggi ce lo spiega in modo suggestivo il modello dissipativo quantistico del cervello, proposto di recente da Freeman e Vitiello[49] come estensione alla dinamica dissipativa del modello molti corpi (many-body), elaborato nel 1967 da Ricciardi e Umezawa.  Si tratta di un modello che si fonda su un’analisi radicata nello studio del cervello come sistema fisico in tutta la sua complessità, derivante dai suoi componenti cellulari e biochimici, caratterizzato tuttavia dall’essere un sistema aperto, la cui introduzione sembra dar conto della formazione dinamica dissipativa dei patterns di oscillazioni coerenti. In esso ciascun pattern è descritto come risultante della crisi di uno stato di equilibrio determinato dalla rottura della simmetria indotta da uno stimolo esterno (o endogeno) ed è associato con lo stato fondamentale di una delle rappresentazioni unitariamente equivalenti della Teoria quantistica dei campi.

Siamo dunque di fronte a situazioni continue di crisi, di rottura di un equilibrio precedente, che non producono però immobilismo e inazione, ma sfociano nella ricerca e nella capacità di raggiungere un nuovo ordine più avanzato.

Per comprendere bene questo passaggio cruciale occorre, innanzi tutto, riferirsi a due concetti fondamentali avanzati da Claude Bernard, il quale nella seconda metà dell’Ottocento aveva proposto per primo l’idea che nei Metazoi esistono due ambienti, quello esterno, nel quale è collocato e opera l’organismo, e quello interno, nel quale vivono gli elementi che lo costituiscono, rappresentato dal plasma e in senso più ampio da tutti i liquidi extracellulari e in possesso  di caratteristiche tali da permettere l’esistenza delle condizioni fisico-chimiche necessarie per il perfetto funzionamento delle cellule e quindi degli organismi nel loro complesso. La seconda intuizione di Bernard consiste nell’ipotesi che, se il funzionamento delle cellule dipende dalle condizioni fisico-chimiche ottimali dell’ambiente interno, queste devono essere il più possibile costanti. Questa ipotesi, per corroborare la quale egli eseguì numerose ricerche dirette a chiarire i meccanismi atti a sostenerla, fu da lui enunciata soprattutto nelle sue Leçons sur les phénomènes de la vie communs aux animaux et végétaux, del 1878-1879[50], nelle quali la costanza dell’ambiente interno veniva presentata come la condizione della vita libera, indipendente. A renderla possibile doveva essere un meccanismo tale da assicurare all’ambiente interno il mantenimento di tutte le condizioni necessarie alla vita degli elementi e in grado di compensare istantaneamente e di equilibrare le variazioni esterne.

Mezzo secolo dopo questi lavori di Claude Bernard, esattamente nel 1929[51], Walter Bradford Cannon riprese e sviluppò le sue intuizioni per rispondere a una questione che può essere sintetizzata nei termini seguenti: come è possibile conciliare gli essenziali interscambi con l’ambiente esterno che caratterizzano i sistemi aperti con la capacità, tipica di un sistema isolato, di mantenere immutata la propria struttura interna? La chiave per venire a capo di questo dilemma, a suo parere, va rintracciata proprio nelle idee di Bernard opportunamente perfezionate. In uno scritto del 1932[52] egli presentò questa soluzione come l’insieme delle “reazioni fisiologiche coordinate che mantengono la maggior parte degli stati stazionari del corpo e che sono così caratteristiche dell’organismo vivente” e la chiamò omeostasi. La scelta di questo termine, in contrapposizione a quello di “equilibrio” voleva indicare che si trattava di una stabilità da intendersi in senso dinamico, come lo stesso Cannon non mancò di chiarire.

Il concetto di omeostasi presenta alcune analogie con quello di stato stazionario e a volte i due termini vengono utilizzati in modo interscambiabile. In realtà, in biologia per “stato stazionario” (o equilibrio dinamico) s’intende una condizione d’equilibrio determinata da forze che agiscono in senso contrario (così, una reazione biochimica si dice in stato stazionario quando la velocità di formazione di un composto, come un complesso enzima-substrato, è uguale alla sua velocità della scissione), mentre l’omeostasi è lo stato che risulta dall’interazione di una serie, anche elevatissima, di stati stazionari: una cellula, per esempio, è in omeostasi quando ogni singolo meccanismo necessario alle sue funzioni vitali è in stato stazionario.

Questo approccio di Cannon è stato sviluppato da Maturana e Varela, i quali nel 1972 per descrivere la specifica situazione dei i sistemi aperti, come gli organismi, i quali, pur scambiando materia, energia e informazione con l’ambiente esterno, e quindi modificandosi di continuo in seguito a questa interazione, hanno tuttavia la capacità di mantenere inalterata la propria organizzazione interna, hanno coniato il termine “autopoiesi”, da “auto”, se stesso, e  “poiesis”, creazione. La scelta di questo termine, che vuole essere un arricchimento del concetto di omeostasi, sta a significare che, nel corso delle interazioni alle quali è esposto di continuo, ciascuno di questi sistemi subisce, ovviamente, cambiamenti che però avvengono soltanto in ragione e nell’ambito della loro specifica struttura e organizzazione interna e della struttura e organizzazione della loro rete di interazioni, che rimangono quindi inalterate. Le modificazioni strutturali che avvengono all’interno di ogni sistema di questo tipo possono, da questo punto di vista, essere spiegate in modo adeguato e soddisfacente se non sono viste come semplici risposte adattative agli stimoli esterni, ma vengono poste, come aveva intuito Claude Bernard, in relazione a un ambiente interno che deve essere il più possibile costante, quindi a una dinamica di stato che dia conto, unitamente alle sollecitazioni recepite da contesti “altri”, della situazione intrinseca complessiva dei sistemi in questione. L’adattamento cessa dunque di essere la categoria centrale per la ricostruzione della loro dinamica. Quest’ultima è, più appropriatamente, il risultato dello sforzo dei sistemi medesimi di modificarsi, in conformità alla loro struttura interna, in maniera tale da mantenere inalterata la corrispondenza con l’ambiente anche in presenza di modificazioni di quest’ultimo. Un sistema autopoietico, tramite la sua determinazione strutturale interna e proprio in virtù di essa, seleziona tra gli stimoli provenienti dall’esterno quelli significativi, cioè funzionali al mantenimento e alla valorizzazione del suo specifico profilo e dell’organizzazione che lo caratterizza; scarta quelli non significativi; determina la direzione e la modalità dei cambiamenti di stato interni, in funzione della conservazione dell’invarianza sia della propria organizzazione, sia della corrispondenza con l’ambiente, cioè della stabilità degli scambi con quest’ultimo. Si capovolge così (e questo è il punto) l’immagine dei processi evolutivi: a quella tradizionale, che individua la direzione dei processi evolutivi in un’ipotetica ottimizzazione progressiva dell’adattamento dei sistemi rispetto all’ambiente, ne subentra un’altra, basata sul concetto di coevoluzione, che interpreta invece tale direzione come il risultato di una stretta interrelazione e interazione fra sistemi diversi, in particolare tra gli organismi e l’ambiente, in funzione della conservazione sia della continuità dell’organizzazione dei sistemi viventi, sia dell’equilibrio sistema/ambiente.

Un sistema di questo genere è autonomo: pur essendo, ovviamente, aperto alle interazioni con l’ambiente, nel senso che scambia con quest’ultimo materia, energia, informazione, è però caratterizzato da quella che possiamo chiamare “chiusura operazionale”, definizione che vale a far capire che “il risultato dei suoi processi coincide con quegli stessi processi. Il concetto di chiusura operazionale è pertanto un modo per specificare classi di processi che, nel loro funzionamento, si rinchiudono su sé stessi a formare reti autonome. Tali reti non ricadono nella classe dei sistemi definiti da meccanismi di controllo esterni (eteronomi), ma al contrario in quella definita da meccanismi interni di autoorganizzazione (autonomi)”[53].

L’autonomia dei sistemi autopoietici e la chiusura operazionale che ne scaturisce non hanno pertanto nulla a che fare con l’isolamento: esse si riferiscono al fatto che il risultato di un’operazione o di un processo cade ancora entro i confini del sistema medesimo, e non alla mancanza di relazioni e interazioni del sistema con l’ambiente esterno e con gli altri sistemi presenti nell’ambito di quest’ultimo. In questa prospettiva metodologica l’autonomia è cioè la chiave di un discorso nell’ambito del quale la spiegazione di ciò che accade a un sistema non va ricercata tutta o in parte preponderante nelle condizioni esterne ma nella “morfologia intrinseca” che lo connota. Le domande cruciali, in tal caso, non sono più del tipo: “quali processi esterni causano i fenomeni x che si riscontrano all’interno del sistema?”, ma diventano le seguenti: “quali sono i processi intrinseci che sono in grado di conferire, contemporaneamente, al sistema stabilità e resistenza alle perturbazioni (organizzazione) e plasticità, cioè flessibilità strutturale, così da metterlo in condizione di mutare di continuo pur mantenendo una propria identità riconoscibile?

In tempi più recenti è stato Damasio a riprendere questi spunti e a collegarli agli studi di Cannon relativi all’omeostasi. Egli infatti propone come pietra angolare della sua analisi relativa alla struttura e all’organizzazione interna dei processi corporei e al loro rapporto con le funzioni mentali la tesi “che l’omeostasi sia una chiave d’accesso alla biologia della coscienza”[54].  Questa tesi trova, a suo giudizio, piena giustificazione nel fatto che la coscienza, comunque la si intenda e la si definisca, è l’espressione della tendenza a centrare la conoscenza di un organismo sulla propria vita per mezzo della creazione di un interesse individuale orientato, appunto, sul sé. Il senso della sua azione e la sua efficacia stanno proprio nella capacità di stabilire un legame effettivo tra l’apparato biologico della regolazione della vita individuale e l’apparato biologico del pensiero, tra “il mondo della regolazione automatica (il mondo dell’omeostasi di base che è intrecciato al proto-sé) e il mondo dell’immaginazione (il mondo in cui si possono combinare immagini in diverse modalità, producendo nuove immagini di situazioni che non si sono ancora presentate). Il mondo delle creazioni immaginarie – il mondo della pianificazione, il mondo della formulazione di scenari e della previsione di risultati – è collegato al mondo del proto-sé. Il senso di sé collega la premeditazione agli automatismi preesistenti”[55].

Questo è appunto lo scenario nel quale si inserisce il modello dissipativo quantistico del cervello di Freeman e Vitiello basato sull’idea che il cervello medesimo, come detto, sia un sistema aperto che, in seguito alle interazioni con l’ambiente, è continuamente esposto alla crisi dei propri stati di equilibrio, determinata dalla rottura della simmetria indotta da uno stimolo esterno (o endogeno), in seguito alla quale non si ha però collasso del sistema o modifica radicale della sua organizzazione interna bensì un rafforzamento di quest’ultima. Siamo dunque di fronte a uno sforzo, coronato da successo, di prosperare nel disordine, per descrivere il quale di recente Taleb ha proposto il concetto di antifragilità[56], sottolineando come essa vada oltre l’idea di «resilienza» in quanto, a differenza di quest’ultima, non denota la capacità dei sistemi interessati di resistere agli shock, rimanendo gli stessi di prima, bensì la proprietà di uscire migliorati da questo confronto con la casualità, l’incertezza e il caos, come fa tutto ciò che sa cambiare nel tempo crescendo: l’evoluzione, la cultura, le idee vincenti, i buoni sistemi politici, l’innovazione tecnologica.

Per capire in che cosa consista questa capacità e quali siano i suoi presupposti entriamo, per un momento, nel mondo dell’arte con una digressione la cui funzione e il cui significato si potranno valutare alla fine dell’excursus.

 

  1. Dalla rottura della simmetria a un nuovo ordine

Il processo di rottura della simmetria merita attenzione in quanto consente di approfondire alcuni aspetti importanti dei problemi di cui stiamo parlando. Per capire perché torniamo alla cultura russa, al 1918, tredici anni dopo la riflessione di Florenskij sull’Amleto, quando ormai la crisi del 1905 aveva imboccato la via della rottura rivoluzionaria. È in quell’anno che Kazimir Malevič, fondatore del Suprematismo, realizzò una tela impensabile. Un quadrato bianco su fondo bianco. Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto”, spiega Kandinskij. Ecco, il bianco come assenza di suono, come luogo della purezza, luogo del niente, di quel niente che è lo spazio proprio dell’invisibile e l’origine del riconoscimento simbolico Con questa operazione il piano della tela diventa Spazio e Oggetto, o Spazio-Oggetto o Oggetto-Spazio, e mai l’uno e l’altro come distinti che interagiscono, mantenendo però la loro autonomia.

A dirci quale fosse la finalità di questa operazione artistica è lo stesso Malevič: “Ho conquistato il rivestimento interno del cielo, l’ho strappato via, ne ho fatto un sacco in cui ho messo il colore e l’ho annodato. Vola! Una bianca sfumatura di infinito senza fine è dinanzi a te”. Risuona in queste sue parole l’ideale della liberazione del jiva (termine sanscrito di genere maschile o neutro, che indica l’essere vivente individuale) dal legame che lo tiene vincolato, nel mondo materiale, e il suo volo come essere illuminato e perfetto verso il tempo e lo spazio infiniti, per vivere nella magnifica regione al culmine dell’universo descritta come “più bianca delle perle, più lucente dell’oro e più pura del cristallo”[57]. Dunque la tensione verso l’infinito, verso un mondo di pure possibilità, non condizionato dai vincoli materiali, come forma suprema di realizzazione della persona umana.

L’opera che ne risulta non è in grado di prefigurare un “altro” al quale riferirsi e con il quale ricongiungersi: eccoci dunque costretti a navigare in uno spazio nel quale l’oggetto è scomparso e dove, proprio nel punto in cui, presumibilmente, si è inabissato, si allarga una chiazza, un alone scuro che va gradatamente annullandosi nel bianco immacolato e indifferenziato della superficie. Una simmetria assoluta, quale quella che si costituisce in seguito a un fondo del tutto omogeneo, è il dominio dell’identico, del non percepibile: ogni punto della tela è un centro di simmetria di inversione, in quanto ribaltando rispetto a esso un punto qualsiasi della tela medesima si ripristina la configurazione di partenza. Inoltre comunque ci si sposti lungo la superficie del quadro, operando una traslazione o una rotazione, nulla cambia, non ci si accorge di alcuna variazione: in quanto invariante, vuoi per effetto di traslazioni, di rotazioni, e di ribaltamenti rispetto a un punto qualsiasi, vuoi per effetto di permutazioni tra punti, quest’opera di Malevič, omogenea, isotropa e indifferente a scambi tra i punti che la compongono, è dotata d’una simmetria perfetta. In essa non c’è niente di diverso, e quindi di definito, al quale appigliarsi per orientarsi e stabilire delle differenze o delle gerarchie: al suo interno tutti i punti hanno identico valore e significato, essa è la proiezione metaforica della totalità di un universo infinitamente esteso e assolutamente omogeneo, in cui sono potenzialmente contenuti tutti i significati possibili, e non è possibile farne emergere concretamente uno. Nessuna meraviglia, dunque, se per alcune comunità religiose dell’Estremo Oriente una tela bianca di questo tipo assurge a simbolo della divinità.

Se questa simmetria, omogenea e isotropa, viene rotta, magari semplicemente segnando nella tela un solo punto nero P, a partire da quest’ultimo si può introdurre un ordine nella struttura: diventa infatti naturale riferirsi a esso per ordinare gli altri punti della tela, ad esempio in funzione della loro distanza da P. Ordine, ovvero correlazione da un lato, e  simmetria, ovvero invarianza dall’altro, sono dunque concetti in certa misura antitetici e inversamente proporzionali: all’instaurarsi o aumentare del primo infatti la seconda diminuisce in quanto all’interno di una struttura ordinata gli elementi non sono più tutti equivalenti e interscambiabili. Una volta introdotto questo ordine la struttura risultante presenta comunque una simmetria superstite ridotta: l’intero processo va dunque descritto come una riduzione della simmetria, in una struttura omogenea e isotropa, in virtù della quale emergono elementi di simmetria superstiti associati all’instaurarsi di un ordine. Emerge così una regola alla base della formazione delle strutture, siano esse naturali o artificiali: ridurre la simmetria rispettandola e conservandola su scala ridotta.

A questo punto risulta possibile chiarire che cosa significhi la rottura della simmetria, indotta da uno stimolo esterno o endogeno, di cui parla il modello dissipativo quantistico del cervello. Partiamo da un insieme qualunque di elementi ad alto indice di simmetria, nell’ambito del quale cioè ci sia un elevato grado di sostituibilità tra i componenti: ad esempio un insieme di parole prive di significato, e quindi interscambiabili, passibili pertanto di una sperimentazione senza vincoli all’interno di un gioco combinatorio in cui sia lecito, in totale libertà, fare qualsiasi accostamento, e dunque ottenere qualunque disposizione dei termini disponibili. Se, per una ragione qualsiasi, una di queste combinazioni si carica di un significato inatteso o di un effetto imprevisto, in virtù dei quali si differenzia da tutte le altre e acquisisce un valore e un’importanza prioritari rispetto a esse (come il punto nero all’interno del quadrato bianco su sfondo bianco di Malevič) si comincia a passare da un libero gioco di parole, con un numero elevatissimo di combinazioni possibili, a un insieme ordinato di frasi dotate di senso con un aumento dell’ordine e una concomitante riduzione della simmetria. Situazioni analoghe si hanno quando si instaura un ordine dinamico inteso quale rimozione del disordine a seguito di una trasformazione strutturale autoorganizzantesi, come ad esempio allorché l’acqua si solidifica passando dalla fase liquida, disordinata, alla fase ordinata del ghiaccio, o ogni volta che siamo in presenza di instabilità dinamiche di sistemi in non-equilibrio, aperti a flussi di materia, di energia o di informazione (il brodo che, tolto dal frigorifero e scaldato sul fornello, prima ancora di entrare in ebollizione si anima di moti convettivi, ovvero di moti d’insieme molto regolari, i quali risultano ben visibili quando si osservino le particelle in sospensione nel brodo stesso).

È stato Giuseppe Caglioti a segnalare in diversi suoi lavori[58] l’importanza di questo processo di riduzione della simmetria in modo ordinato, cioè allo stesso tempo preservandola, e la rilevanza che esso ha dal punto di vista sia percettivo che cognitivo. Per quanto riguarda ad esempio la percezione visiva egli sottolinea l’incidenza della «catastrofe percettiva», che si produce quando un insieme di segni e di simboli è interiorizzato in modo da tradursi in stimoli sensoriali, i quali, attivati e controllati da una curiosità e un’attenzione sufficientemente intense, attraverso una successione di configurazioni disordinate che via via rapidamente si aggiornano e si ordinano approdano finalmente a una struttura stabile, uno dei numerosi attrattori che sono geneticamente o culturalmente presenti nella nostra mente, un’idea visiva che provoca un’emozione, frutto del riorientamento del pensiero.

Dal punto di vista cognitivo ciò che chiamiamo «informazione» è l’esito di un’azione che dà forma: nel creare un bit di informazione si passa infatti, irreversibilmente, da una situazione stazionaria e invariante, fuori dal tempo, tipica della simmetria assoluta (riferiamoci, ancora una volta, alla tela di Malevič Un quadrato bianco su fondo bianco, che esemplifica perfettamente questa situazione) a una stato informato, di consapevolezza: per creare il bit si entra nella dimensione temporale e sono necessari tempo ed energia, è cioè necessario spendere un’azione. Ricordiamo, a questo proposito, che nella fisica quantistica l’azione è espressa dal prodotto di un’energia per un tempo e si misura in unità della costante di Planck, h = 6,6·10-34J·s). Come nella meccanica quantistica per passare da una descrizione impartecipe a una misura attiva occorre rimuovere la stazionarietà e entrare nella dimensione tempo, così qui per dare ordine e forma a una situazione stazionaria e invariante, che è fuori dal tempo, occorre spendere un’azione ed entrare in uno stato di consapevolezza.

Un ulteriore motivo di interesse di questo approccio per il discorso oggetto della nostra analisi consiste nel fatto che, secondo Caglioti, il meccanismo che stiamo descrivendo è all’origine del senso del bello: da questo punto di vista una struttura è in grado di proporre stimoli che risuonino gradevolmente sullo stato d’animo di chi la percepisca solo se in essa si bilanciano armonicamente simmetria e ordine[59]. “Insieme, simmetria e ordine ingenerano sensazioni di segno opposto – rassicurazione e ansia, ipnosi e presa di coscienza. Sapientemente calibrati, distribuiti e armonizzati in una stessa struttura, essi fanno presa sull’animo umano gratificandolo: basti pensare alla simmetria del ritmo e all’ordine della melodia in una composizione musicale o nella fuga delle colonne equidistanti, sormontate da capitelli disuguali, in un chiostro romanico”[60] . Non a caso recenti studi nell’ambito delle neuroscienze hanno rilevato che, in presenza di proporzioni auree, le attività cerebrali producono nell’area che presiede alle emozioni uno stato di profondo benessere.

La conclusione che possiamo trarre da queste osservazioni è allora la seguente: “Nella combinazione armonica dell’ordine e della simmetria è l’essenza della bellezza. I numeri naturali e le strutture numeriche sono ingredienti imprescindibili della simmetria e dell’ordine. Tra le strutture numeriche, la successione di Fibonacci e, con essa, la sezione aurea, primeggiano per la loro valenza estetica. L’uomo, che è parte della natura, crea le sue spetie ispirandosi alla natura. Ed è nella sezione aurea che si possono cogliere i germi sia di quella forma di ordine dinamico, insito nelle creature naturali, che è l’autoorganizzazione, sia, parallelamente, di quella forma di simmetria, originata dall’autoorganizzazione, che è l’autosomiglianza”[61]. La sezione aurea costituisce un esempio pervasivo sia di quell’ordine dinamico tipico dell’auto-organizzazione, sia di quella forma di simmetria che all’auto-organizzazione si suole accompagnare: la simmetria di scala o autosomiglianza. Una struttura è autosomigliante quando ogni sua parte è copia di una parte della struttura ed eventualmente dell’intera struttura: sicché zoomando localmente la struttura, ovvero attivando un processo di ingrandimento, questa rimane identica a sé stessa.

 

  1. L’importanza di “rimettere il tempo in carreggiata”

 

Avevamo detto che l’importanza della digressione nel mondo, apparentemente estraneo alla questione trattata, dell’arte sarebbe stata da valutare a conclusione di essa. Ebbene a questo punto si concentri l’attenzione su ciò che ne è scaturito allorché si è detto che la capacità di uscire dalle situazioni di blocco psichico, di stasi e di immobilismo, come quella che affligge Amleto, richiede il passaggio da una situazione stazionaria e invariante,  fuori dal tempo, tipica della simmetria assoluta, a uno stato informato di consapevolezza, che presuppone il rientro nella dimensione temporale e la capacità di spendere un’azione. Ecco cosa significa l’idea di “rimettere il tempo in carreggiata” genialmente intuita da Shakespeare e giustamente sottolineata e messa in rilievo in tutta la sua importanza da Florenskij. Per ricollocare “il mondo nei suoi cardini” occorre saper bilanciare ed equilibrare simmetria ed ordine: la rottura di un determinato livello della prima deve essere accompagnata dalla capacità di introdurre un ordine conseguente a questa azione e di conservare e valorizzare la simmetria residua. Questo è ciò che significa, concretamente, “prosperare nel disordine” e uscire più forti dalle crisi determinata dalla rottura della simmetria indotta da uno stimolo esterno o endogeno: capacità di ridurre la simmetria rispettandola e conservandola su scala ridotta e di introdurre un ordine conseguente a queste operazioni di rottura e riduzione.

Sia consentito qui fare un ulteriore excursus, di carattere filosofico questa volta, richiamando la distinzione operata da Kant nella Critica della ragion pura tra la Realität, categoria della qualità, che designa la totalità della determinazione possibile di una determinata cosa, e i concetti di Dasein, di Existenz e di Wirklichkeit che fanno invece riferimento all’effettualità, come dominio del «qui e ora».

È chiaro che la prima, proprio perché si riferisce al possibile allo stato puro, è fuori dal tempo: tuttavia non può essere considerata ininfluente ai fini del reperimento e del consolidamento di un ordine all’interno di esso e della capacità di “rimetterlo in carreggiata”, in quanto progettare (un nuovo ordine) significa riuscire a vedere e a pensare altrimenti l’effettualità (l’oggetto che si ha di fronte, qui e ora, nello spazio e nel tempo) cogliendo le alternative della sua modalità di presentazione, insite nel suo specifico orizzonte di realtà. Così facendo non si esce, ovviamente, dalla totalità della determinazione possibile dell’oggetto medesimo, cioè dalla sua Realität, quella che possiamo chiamare l’illuminazione della sua tipologia, senza la quale non potremmo afferrarne il concetto, né potremmo individuare la classe di molteplici significati e valori alla quale è lecito fare un  continuo rinvio: si va invece al di là dello specifico modo in cui si è abituati a considerarlo sulla base delle modalità percettive usuali ed egemoni. La Realität individua e traccia pertanto il vincolo rispetto a questa positiva esplorazione di possibilità alternative:  il fatto che essa si deve necessariamente muovere entro l’orizzonte e il confine tracciato dalla tipologia suddetta, presupposto imprescindibile se si vuole restare all’interno di una classificazione che rispetti l’esigenza di rendere ciò a cui si volge l’attenzione e lo sguardo  riconoscibile come specifico oggetto del discorso e della conoscenza.

Questo è il punto saliente, il rapporto tra l’uniformità di un tipo che deve essere comunque identificabile e la varietà delle infinite possibilità che esso racchiude ed esprime in sé  già come è visto, se è vero, come ci dicono le neuroscienze, che il sistema visivo crea a livello cerebrale delle rappresentazioni (in forma di codici neurali) che richiedono molta più informazione della modesta quantità che il cervello riceve dagli occhi. Questo fatto induce Chris Frith, uno psicologo cognitivo, a spingersi ad affermare: “Ciò che percepisco non sono gli indizi grezzi e ambigui che dal mondo esterno arrivano ai miei occhi, alle mie orecchie e alle mie dita. Percepisco qualcosa di assai più ricco, un’immagine che combina tutti questi segnali grezzi con un’enorme quantità di esperienze passate. La nostra percezione del mondo è una fantasia che coincide con la realtà”[62]. Se questo è vero per ciò che viene visto, ancor più e in misura ancora maggiore lo è, ovviamente, per ciò che viene pensato e per tutto ciò che costituisce l’ampia e variegata gamma del vissuto.

Questa dunque è la via per avviare e compiere concretamente quel processo di rinvenimento del noumeno nei fenomeni al quale si riferisce Florenskij in un passo precedentemente citato. Questa ricerca è in qualche modo legittimata anche dallo stesso Kant, la cui opera nel suo complesso fa giustizia di ogni empirismo acefalo, che sia espressione del sogno di poter ridurre, senza residui, il piano teorico alla dimensione della mera esperienza fenomenica. Questa esperienza, infatti, non solo non potrebbe essere compresa, ma non potrebbe neppure essere posta e pensata senza il riferimento imprescindibile a una specifica normatività, che la legalizza, aprendola a un piano universale e necessario, costruito criticamente dalla nostra ragione.

Per Kant, dunque, la conoscenza scientifica si radica non tanto sul piano delle mere intuizioni sensibili, che ci fanno appunto conoscere empiricamente il molteplice del mondo nella sua immediata molteplicità e varietà irrelata, bensì sul piano scientifico del giudizio, mediante il quale le molteplici intuizioni sensibili vengono sussunte in una sintesi conoscitiva, di carattere euristico, posta in essere dalle strutture dell’intelletto, coincidenti con la dimensione concettuale della conoscenza scientifica. Come dire che senza il riferimento alla struttura, al valore, ai limiti e all’articolazione stessa di ogni specifico ambito concettuale non saremmo in condizione di istituire non solo criticamente, ma neppure pragmaticamente uno specifico universo di discorso. Non potremmo cioè arrivare a definire l’effettualità, ciò che si ha di fronte nello spazio e nel tempo, senza l’illuminazione di una tipologia che definisca preliminarmente l’orizzonte delle possibilità all’interno della quale essa si inserisce e che delimitano il confine del suo uso corretto e legittimo.

È chiaro che la realtà intesa così, come totalità della determinazione possibile dell’oggetto, proprio perché si riferisce al possibile allo stato puro, è fuori dal tempo: il suo effetto è tuttavia reale e concreto, in quanto determina lo sfondo, lo specifico orizzonte all’interno del quale occorre rimanere per riuscire a vedere e a pensare altrimenti l’effettualità medesima, l’oggetto che si ha di fronte, qui e ora, nello spazio e nel tempo. Se si rimane all’interno di esso non si compie alcun uso illegittimo, non si commette alcun abuso rispetto all’impiego corretto della ragione e dei suoi strumenti operativi: ciò che è lecito dire è che ci si sottrae alla schiavitù di uno sguardo e di uno stile di pensiero ripetitivi e strandardizzati.

La centralità del progetto d’azione e la sua funzione di selezione, tra tutte le informazioni disponibili, di quelle pertinenti rispetto a esso, insita nel passaggio dalla Realität ai concetti di Dasein, di Existenz e di Wirklichkeit, rende chiara l’esigenza di uscire dalla tradizionale coppia opposizionale reale/virtuale per assumere, più correttamente e concretamente, quella effettuale/virtuale. Questo spostamento indica che la Realität, la “totalità della determinazione possibile della res” può essere assunta in qualità di oggetto della conoscenza: per farlo bisogna però passare dal concetto di confine tra mondo fenomenico e sistema delle idee come rigida linea di demarcazione a quello, assunto da Floirenskij, di «barriera di contatto», vale a dire di interfaccia e zona cuscinetto di collegamento tra ambiti distinti, nel caso specifico tra la Realität medesima, appunto, e l’Existenz o effettualità.

Così può essere ulteriormente chiarito, vedendolo da una prospettiva diversa, il processo di rottura della simmetria assoluta e di passaggio a una sua versione su scala ridotta con introduzione di uno specifico ordine. In quanto totalità dei possibili, orizzonte dell’espansione fino ai limiti consentiti di un concetto, la categoria di Realität esprime la simmetria assoluta: il passaggio all’effettualità, a un «qui e ora», ne costituisce a tutti gli effetti una riduzione, con l’ingresso nell’ordine del tempo, che quindi viene “rimesso in carreggiata”.

Questo è il passaggio cruciale che Amleto si mostra incapace di compiere: egli descrive e analizza lucidamente la situazione in cui si trova, ne sa anche vedere e spiegare le cause e i moventi, ma è incapace di compiere il passaggio decisivo all’azione: ed è per questo motivo che egli rimane intrappolato in una prospettiva nella quale l’antinomia, che caratterizza la situazione complessiva nella quale egli si viene a trovare, ha una funzione paralizzante di blocco e di condanna all’inazione.

 

  1. L’alternativa: l’antinomia come opportunità

 

Questo esito, in cui resta imprigionato Amleto, non è però, come si è ripetutamente sottolineato, privo di alternative. Per dimostrare che esistono e di quale natura siano Florenskij affronta una sfida ardua, al limite della temerarietà: quella di sottoporre all’«esperienza dell’antinomicità»[63], che trova nella Critica della ragion pura di Kant una significativa analisi di partenza, un concetto, come quello di “verità”, che per la sua specifica natura sembrerebbe presupporre una coerenza interna tale da escludere anche la minima tensione tra le sue componenti. Lo fa in primo luogo nel suo saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere pubblicato nel 1914 con il titolo Stolp i utverždenie istiny.

Per comprendere a fondo la proposta teorica da lui avanzata in quest’opera occorre in primo luogo tener conto delle caratteristiche intrinseche che la verità (istina) assume nella tradizione filosofica russa e nel pensiero ortodosso, che la distinguono in modo netto da come essa viene considerata e trattata in altri contesti culturali.

Nel pensiero greco la verità viene definita in relazione al tempo,  che è la forma dell’esistenza di tutto ciò che è. Dire: “questa cosa esiste”, equivale a collocarla nel tempo, in quanto il tempo, Χρόνος, è la forma che produce i fenomeni ma, al tempo stesso, li divora, come la sua figura mitologica, cioè il dio Κρόνος che divora le sue creature, ed è per questo simbolo della misurazione meccanica del tempo, che induce a percepire lo scorrere temporale in una sola direzione, dal passato al futuro, per cui i ritmi della vita e dell’esperienza tendono a essere scanditi secondo il principio dell’alternanza tra un “prima” e un “poi”, Tuttavia, malgrado la consapevolezza di questa forza produttiva e, nello stesso tempo, distruttiva del tempo l’uomo – sottolineano i greci antichi – non può soffocare in sé il bisogno di qualcosa che resista a questa forza, e che sappia, pertanto, rimanere “stabile” nel corso del tempo, e quindi sia in grado di opporsi all’oblio. Questa è, appunto, l’ἀλήθεια, cioè ciò che è capace di rimanere e di permanere nonostante il flusso dell’oblio, malgrado la corrente letale del mondo sensibile, che si mantiene pertanto senza “divenire”, senza svilupparsi, senza modificarsi e che, di conseguenza, sopravanza il tempo e si conserva ben fissa e stabile nella memoria. La memoria vuole arrestare il movimento, cerca di opporre una barriera alla fluidità del divenire. La verità, da questo punto di vista, è dunque la memoria eterna, un valore degno d’una commemorazione perpetua e capace di attingerla.

Il latino veritas è “un termine di derivazione posteriore, che apparteneva interamente al diritto: solo Cicerone gli conferì un significato teoretico in generale e filosofico, riferibile addirittura alla sfera  della conoscenza. […] Cicerone ne fa largo uso veritas soprattutto nell’accezione giuridica ma in parte anche in quella morale, e la parola indica in questo caso la situazione effettiva della causa trattata (in contrasto con l’interpretazione falsa che ne fornisce una delle parti), la giustizia, la verità, la ragione della parte civile: solo raramente si avvicina approssimativamente alla «verità» nell’accezione che noi le attribuiamo. Il termine veritas, di origine religiosa e giuridica e quindi con accezione giuridico-morale, anche in seguito ha conservato, e in parte rafforzato la propria sfumatura giuridica”[64].

Gli antichi Ebrei e i Sanniti in genere nel concetto di verità hanno invece fissato il momento storico, o più precisamente teocratico. Per essi la verità era sempre la parola di Dio. “Per gli Ebrei la verità è effettivamente «la parola fedele, fedeltà, promessa fidata»; siccome poi è vano fidarsi «dei prìncipi, dei figli degli uomini», soltanto la Parola di Dio è la vera parola fidata: la verità è la promessa sicura di Dio, assicurata dalla fedeltà e dalla immutabilità del Signore. La verità, quindi, per gli Ebrei […] è un concetto storico, o storico-sacrale, teocratico”[65].

Diversa da queste tre accezioni è l’idea di verità contenuta nel termine russo istina, la cui etimologia evidenzia la connessione con est’, infinito del verbo “essere”, est-e-stv-o (l’essere, la cosa che è). Si tratta, dunque, di una concezione di carattere ontologico: “«istina ‘è l’esistenza perdurante, l’essere vivente, vivo, respirante», cioè dotato della condizione essenziale di vita e di esistenza. Il popolo russo intende istina come un essere prevalentemente vivo, e non è difficile naturalmente rilevare che questa accezione della verità (istina) costituisce proprio la caratteristica speciale e autonoma della filosofia russa”[66].

Proprio in virtù del suo carattere ontologico l’istina non può venir soddisfatta né dalla sola legge d’identità, che rappresenta la staticità del pensare con la quale ogni A viene riconosciuto dalla ragione solo come A e nient’altro (A=A), né dalla “legge della ragion sufficiente”, basandosi cioè su un giudizio dato mediatamente[67].

Proprio per questo ne La colonna e il fondamento della verità Florenskij parte dal presupposto che sia impossibile, per la ragione, funzionare in modo efficace e pervenire a risultati solidi e convincenti basandosi esclusivamente su queste leggi, cioè su un giudizio dato mediatamente (discursio), in quanto, seguendo questa strada, ogni giudizio rinvia a un altro giudizio, e così senza fine. Tutta la razionalità della dimostrazione consiste nella giustificazione di ciascun gradino della scala discendente dei giudizi, e cioè nell’assoluta e costante possibilità di discendere ancora per lo meno un gradino al di sotto di qualsiasi dato. “Ma proprio questa sua essenza”, spiega Florenskij, “ne costituisce il tallone d’Achille. Il regressus in indefinitum è dato in potentia, e non in actu, non come una realtà finita e attuata in qualche tempo e in qualche luogo. La dimostrazione razionale crea nel tempo il sogno dell’eternità, ma non permette mai di attingere l’eternità. Perciò la razionalità del criterio, l’attendibilità della verità non è mai, come tale, data effettivamente in maniera attuale, nella sua giustificazione, bensì sempre soltanto nella possibilità in potenza, nella sua giustificabilità[68].

La conclusione che dobbiamo trarre da questi limiti è a questo punto ben delineata nei suoi tratti essenziali: “Una formula intellettuale può essere verità solo se, per così dire, prevede tutte le obiezioni a tutte le risposte. Ma per prevedere tutte le obiezioni bisogna assumerle non già nella loro concretezza, ma coglierne il limite. Ne deriva che la verità è quel giudizio che racchiude in sé anche il limite di tutto ciò che lo può cassare, in altre parole, che la verità è un giudizio autocontraddittorio. L’assolutezza della verità viene espressa dal lato formale nel fatto che la verità anticipatamente sottintende e accetta la propria negazione e risponde ai dubbi sulla propria veridicità accogliendo questi dubbi in sé stessa e addirittura nel suo limite”[69].

Il problema, a questo punto, diventa quello di capire come si può arrivare, nonostante tutto, a disporre concretamente di una verità. Per affrontare e risolvere la questione Florenskij fissa, prima di tutto, le condizioni speculative» da soddisfare per poter dar luogo effettivamente all’esperienza della verità. Esse sono le seguenti:

 

“1) la Verità assoluta esiste, cioè è assoluta realtà;

2) essa è conoscibile, cioè è assoluta ragionevolezza;

3) essa è data come fatto, cioè è l’intuizione finale; ma è anche assolutamente dimostrata e quindi ha la struttura di un’infinita discorso.

 

L’analisi ci dice che la terza tesi implica le altre due. Infatti se la Verità è intuizione, significa che esiste; se la Verità è discorso significa che è conoscibile. Infatti l’intuitività è l’immediatezza effettiva dell’esistenza, mentre la discorsività è la possibilità ideale della conoscibilità. Quindi tutta la nostra attenzione deve concentrarsi sulla tesi duplice nella forma, ma unica nell’idea: ‘La Verità è intuizione, la Verità è discorso’, o semplicemente:

 

                       La verità è intuizione-discorso.

 

[…] Per essere dimostrabile (discorsiva), l’intuizione non deve essere cieca, ottusamente limitata, ma deve aprirsi sull’infinito, deve, per così dire, essere parlante, ragionevole. D’altra parte la discursio non deve andare nell’indefinito, deve essere non solo possibile ma reale, attuale.

L’intuizione discorsiva deve racchiudere in sé la serie infinita e sintetica dei propri fondamenti. Il discorso intuitivo a sua volta deve sintetizzare tutta la propria serie indefinita di fondamenti nella finitezza, nell’unità, in un’unità. L’intuizione discorsiva è un’intuizione differenziata all’infinito; il discorso intuitivo è una discursio integrata fino all’unità.

Quindi, se la Verità esiste, allora è una razionalità reale e una realtà razionale; un’infinità finita e un’infinita finitezza, ovvero, per esprimerci in termini matematici, un’infinità attuale, un Infinito pensabile come Unità complessiva, come Soggetto uno e in sé finito. Benché finita in sé, essa racchiude tutta la pienezza della serie infinita dei suoi fondamenti, la profondità della sua prospettiva; è il sole che, con i suoi raggi, illumina sé stesso e tutto l’universo; è un abisso di potenza e non di nullità. La Verità è moto immobile e immobilità che si muove, unità degli opposti, coincidentia oppositorum[70].

I capisaldi del concetto di verità sono dunque per un verso l’intuizione e per l’altro il discorso.

Il secondo termine di questa coppia è ben delineato nella sua forma e nei suoi tratti distintivi. Per quanto riguarda l’intuizione, invece, le cose stanno diversamente. Di che cosa si tratta, in concreto? A quali contenuti specifici ci consente di accedere? E qual è il tipo di relazione che essa intrattiene con il discorso e l’argomentazione?

Per rispondere a queste domande fondamentali occorre riferirsi a due passaggi cruciali della nota autobiografica redatta nel 1925-1926 da Florenskij su proposta della direzione del Dizionario enciclopedico dell’Istituto bibliografico russo Granat[71]. La prima riguarda proprio l’importanza del riferimento all’antinomicità e il modo corretto di intenderla: “La struttura dell’intelletto conoscitivo va oltre la logica e di conseguenza include la contraddizione fondamentale delle due componenti che gli sono costitutivamente proprie; chiamarlo essere e significato, pausa e movimento, finitezza e infinitezza, legge d’identità (intendendo il principio d’identità, di contraddizione e del terzo escluso) e legge di ragion sufficiente è all’incirca la stessa cosa. E poiché l’intelletto non può agire senza la presenza congiunta di entrambe le sue componenti, ogni suo atto è sostanzialmente antinomico, così come tutte le sue strutture si reggono solamente sulla forza di princìpi contrastanti che si escludono a vicenda. La verità irrefutabile è quella in cui un’asserzione quanto mai ferma va di pari passo con una negazione che lo è altrettanto; si tratta dunque di una contraddizione estrema e irrefutabile, poiché ha in sé la sua estrema negazione e, di conseguenza, ogni possibile obiezione non potrà che essere più debole della negazione in essa implicita. L’oggetto corrispondente a quest’ultima antinomia è, evidentemente, la vera realtà e la verità reale. Tale oggetto, origine dell’essere e del significato, è percepito attraverso l’esperienza”[72].

Dunque principi contrastanti, l’intuizione e il discorso, i quali, pur escludendosi a vicenda, sono presenti e operanti congiuntamente nell’intelletto e che reggono tutte le strutture di quest’ultimo senza essere, a loro volta, retti da alcunché. Come vanno intese questa loro autosufficienza e la relazione reciproca e l’interazione che si sviluppa tra le due componenti costitutive della verità?

Per comprenderlo e rintracciare la risposta occorre fare riferimento al complesso degli interessi e dell’attività di ricerca di Florenskij attestato da lui stesso in terza persona: “Dal 1919 Florenskij si dedica vieppiù alla tecnica, tiene una serie di relazioni all’Associazione panrussa degli ingegneri, all’Associazione russa degli elettrotecnici e presso altre associazioni, e pubblica una serie di articoli su “Električestvo” [L’elettricità] e su altre riviste di tecnica. Da quello stesso anno collabora con il VSNCh, il Consiglio supremo dell’economia nazionale, dapprima presso lo stabilimento Karbolit, poi al Glavelektro. In entrambi i casi si occupa principalmente di questioni inerenti ai dielettrici e ai campi elettrici”[73].

Quindi la tecnica, e in particolare i campi elettrici, settore nel quale aveva acquisito una competenza tale da essere chiamato a collaborare, dopo la rivoluzione, come egli stesso ricorda, alla Glavelektro (Amministrazione centrale per l’elettrificazione della Russia) e al Goelro (Istituto Elettrotecnico di Stato) e da essere nominato, nel 1927, coredattore della Boľšaja Techničeskaja Enciklopedija (Grande Enciclopedia Tecnica), per la quale curò ben centoventisette voci. Sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che un pensatore come Florenskij, paladino convinto dell’unità della cultura e della forte e costante relazione interna di tutte le sue partizioni e articolazioni, potesse mantenere separati gli interessi per la filosofia e la teologia, da una parte, e quelli per la scienza e la tecnica, dall’altra. Comunque a confutare un orientamento del genere provvede lui stesso in modo esplicito: “A legge fondamentale del mondo Florenskij elegge il secondo principio della termodinamica, la legge dell’entropia, che egli accoglie in senso lato quale legge del Caos in ogni luogo del creato. A questa dinamica del mondo si contrappone il Logos, o principio dell’entropia. La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura è il distacco quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte”[74].

L’interesse per i campi elettrici, così esplicitamente dichiarato, porta inevitabilmente al magistero scientifico di Maxwell, al quale Florenskij non a caso si appella più volte, condividendone l’idea della struttura simbolica del linguaggio come paradigma del pensiero scientifico.

Questo riferimento a Maxwell è importante perché è a lui che si deve, grazie al suo studio del campo magnetico, la conclusione che i campi elettrici e magnetici possono generarsi a vicenda.

L’insieme completo di relazioni tra i campi elettrici e magnetici proposto da Maxwell negli anni tra il 1860 ed il 1870 non fu subito direttamente verificabile. Egli, però, aveva previsto anche un fenomeno del tutto nuovo, che avrebbe dovuto insorgere per effetto delle reciproche interazioni tra campi elettrici e magnetici variabili. Per capire di cosa si tratta, supponiamo che in una certa regione di spazio ad un certo istante si determini una variazione del campo elettrico, originato, per esempio, da un moto accelerato di cariche elettriche. Nei punti immediatamente vicini si produce allora un campo magnetico anch’esso variabile nel tempo. La variazione del campo magnetico origina nei punti immediatamente vicini un campo elettrico anch’esso variabile, e così via. Nasce in tal modo una perturbazione elettromagnetica che si propaga nello spazio.

Già prima di Maxwell era nota la produzione di un campo elettrico variabile in seguito a una variazione del campo magnetico in un punto, in quanto prevista dalla legge di Faraday-Henry; si pensava però che la brusca diminuzione di un campo magnetico da un valore massimo a zero dovesse provocare un comportamento analogo del campo elettrico e che, di conseguenza, dopo un piccolo intervallo di tempo dall’istante in cui si era annullato il campo magnetico l’intero processo venisse a cessare. La novità, di grande importanza, prevista da Maxwell consiste nel fatto che, al contrario, il campo elettrico ed il campo magnetico generati dalla variazione nel tempo di uno dei due sono in grado di autosostenersi, cioè di propagarsi anche se la variazione iniziale che li ha prodotti è venuta meno.

Se ne conclude che, da una brusca variazione di un campo elettrico o magnetico nel tempo, ha origine la propagazione di un impulso elettromagnetico, cioè di un’onda, chiamata per l’appunto onda elettromagnetica.

La cosa rilevante dal nostro punto di vista, e che non poteva non attirare l’interesse del Florenskij filosofo, è questa capacità di sostenersi da soli del campo elettrico variabile e di quello magnetico in virtù di un processo, quello di retroazione positiva completa, che viene mirabilmente espresso e sintetizzato da Escher in una sua celeberrima litografia del 1948 che rappresenta una tavola da disegno su cui poggia un foglio raffigurante due mani, ognuna impegnata a disegnare l’altra:

 

 

 

 

L’effetto visivo è un enigma irrisolvibile: quale delle due mani disegna l’altra?

Viene spontaneo chiederselo e, pur tentando di identificarsi con il disegnatore, diventa impossibile trovare una risposta-soluzione.

Ecco dunque delinearsi il proposito di Florenskij, scaturito proprio dall’ampiezza delle sue conoscenze e competenze e dalla capacità di far dialogare e interagire teologia, filosofia, scienze fisiche e matematiche e tecnologia. Assumere come modello, per impostare il problema della verità e la relazione tra intuizione e discorso a cui, secondo Florenskij, ci si deve riferire per affrontare in modo adeguato la questione, la retroazione positiva completa tra campo elettrico e campo magnetico, la loro capacità di generarsi a vicenda e di dare origine a una nuova entità integrata, il campo elettromagnetico, che si propaga sotto forma di onde nello spazio ma anche nel vuoto, e dunque in assenza di un mezzo materiale, perché in esse oscillano un campo elettrico e un campo magnetico che sono entità prive di massa.

La legittimità di questo ricorso all’intuizione di Maxwell per inquadrare e risolvere il problema della verità si basa su tre elementi di fatto: il primo, già proposto e preso in considerazione, è la concezione della verità (istina) come un elemento ontologico, appartenente alla sfera dell’essere piuttosto che a quella del pensiero, da assimilarsi, di conseguenza, alla realtà fisica più che essere trattata come oggetto di un processo puramente mentale. Il secondo è “l’affermazione di Goethe […] che un fenomeno magnetico è simbolo di un fenomeno elettrico”, sulla quale si basa la conclusione generale “secondo la quale tutta la nostra conoscenza non è che simbolica, che l’una cosa è simbolo dell’altra”[75]. Infine il terzo aspetto ha a che fare con la circostanza, alla quale Florenskij attribuisce la massima importanza, che “l’unione delle azioni di due energie impercettibili – il magnetismo e l’elettricità – serve a fabbricare i galvanometri, che non solo ci danno una sensibilità affinata ai processi elettromagnetici, ma si rivelano essere i tramiti migliori nell’ampliamento di tutti gli altri sensi. Con la nostra sensibilità ci estendiamo negli ambiti che meglio conosciamo, ma non direttamente, bensì tramite energie alle quali siamo del tutto, o quasi, inerti. Il più sensibile dei galvanometri costruiti a tutt’oggi, quello di Paschen, ha una soglia di stimolo poco più bassa di un bilionesimo di erg, dunque è orientativamente 10.000 volte più sensibile dell’occhio e dell’orecchio. Quanto a lavoro speso, un battito d’occhi basta a far muovere lo strumento cento bilioni di volte”[76].

È proprio grazie al magnetismo e all’elettricità, dunque, che possiamo disporre di strumenti che “ci introducono, per dirla con D.A. Goľdgammer, nella ‘fisica nascosta ai nostri sensi’”[77], proseguendo e potenziando questi ultimi. Questi tre elementi di fatto sono, a giudizio di Florenskij, più che sufficienti per giustificare l’accostamento e l’analogia da lui proposti.

Affrontare il problema della verità ricorrendo alla retroazione positiva tra campo elettrico e campo magnetico significa, concretamente, pensare a un modello che nasce duale e antinomico, con un primo sistema, quello dell’intuizione, che prende decisioni automaticamente e in modo rapido, con processi non costosi in termini di sforzo associativo e difficili da controllare e modificare, e un secondo, quello del discorso, cioè delle operazioni deliberate del ragionamento, più lente, seriali e impegnative, che presentano però il pregio di poter essere controllate passo dopo passo. Questa prima caratterizzazione potrebbe portare a considerare la distinzione tra i due sistemi come una riproposizione della dicotomia irrazionale/razionale, ma questo approccio sarebbe del tutto fuorviante, dato che ci sono forme di intuizione che sono l’espressione di una capacità di percezione tanto immediata quanto raffinata, al punto da individuare le direzioni verso le quali orientare le computazioni e di riuscire a pervenire con largo anticipo a conclusioni la cui validità viene poi confermata dal calcolo. In tutto ciò non vi è nulla di sorprendente, per due ordini di motivi. Il primo è che l’attività simbolizzatrice, pietra angolare dell’intero processo conoscitivo, “si compie in modo sub- e sovracosciente. È perciò ovvio che la chiave per intenderla, compiendosi essa nella coscienza subliminale, dovrà essere cercata laddove la soglia di consapevolezza è più sottile, dove più trasparenti sono per noi i processi sub e sovracoscienti del nostro spirito”[78].

Dunque in tutto ciò che avviene “nel profondo dello spirito creatore”[79] nel sogno, ovviamente, ma anche “in quei prodotti della creazione che possono e devono essere visti quali sogni incarnati, quali fantasie reificate, quali allucinazioni materializzate e consolidate. […] Affrontando il tema della creazione artistica e, per esempio, della poesia, chiunque sosterrà l’idea del consolidamento delle visioni. Che cosa sono la lirica, il dramma, l’epica, se non sogni a occhi aperti consolidati in quella materia (in senso filosofico) raffinata che è la parola? E poi, per tramite della parola, fissati sulla carta”[80].

C’è poi una seconda forma e modalità di intuizione che ne spiega l’efficacia coniugata alla rapidità: quella che è l’espressione di contenuti incorporati dopo un intero e complesso itinerario conoscitivo, manifestazione di una prontezza all’azione e alla riflessione che è il risultato di processi non caratterizzati da una totale mancanza di pensiero, bensì frutto di una consapevolezza che viene incamerata e che agisce con immediatezza proprio in seguito a questa avvenuta incorporazione. Dobbiamo dunque liberarci dal pregiudizio che l’intuizione sia totalmente estranea all’argomentazione e al discorso e addirittura contrapposta a essi: e a orientarci nella giusta direzione, aiutandoci a rimuovere questo vero e proprio “ostacolo epistemologico”, è proprio l’idea del sostegno reciproco e della mutua fecondazione tra gli elementi in gioco insita nel processo di retroazione positiva completa, così ben espresso dall’immagine di Escher nella quale ciascuna delle mani disegna l’altra in una spirale virtuosa di accrescimento comune.

Come la natura e la cultura, così anche l’intuizione e il discorso, che costituiscono “la tesi e l’antitesi dell’antinomia, in quanto legate l’una all’altra, si compenetrano reciprocamente e reciprocamente si manifestano”[81], per cui, pur non essendo riconducibili l’una all’altra, hanno un legame talmente profondo “che l’una senza l’altra non possono esistere”[82]. Per comprendere la natura di questo legame basta riferirsi al nostro corpo, che è “la materializzazione del nostro istinto, della nostra vita più profonda, della nostra vita primordiale, […] una pellicola che separa l’ambito dei fenomeni da quello dei noumeni. Se vogliamo, il nostro corpo può essere paragonato allo strato di terreno che separa la zona delle radici di una pianta da quella delle foglie e dei frutti. Il confine del corpo separa il buio del sottosuolo, cioè il subcosciente, dalla luce della coscienza; e con ciò essa, vicina anche al nostro spirito, divenendo simbolo viene allontanata e si fa evidente. La comprensione è allontanamento. Il corpo è la soglia concretizzata della coscienza, il limen dell’allontanamento, il pathos di grado zero della distanza. Quel che è oltre il corpo, dall’altra parte della pelle, è quella stessa tensione di autosvelamento, pur se celata alla coscienza; quel che è da questa parte della pelle è la datità immediata dello spirito, che perciò non è estrinsecata al di fuori di esso. Comprendendo mascheriamo e smettendo di comprendere smascheriamo noi stessi”[83].

L’esito al quale approda questo processo di sostegno reciproco delle “due fonti della conoscenza” e delle due radici della verità è il medesimo che si riscontra nel rapporto tra campo elettrico e campo magnetico. Questa è la conclusione che Florenskij trae nell’ultimo suo scritto prima dell’arresto e dell’invio nel gulag delle Solovki: “non v’è spazio per dubitare che anche la logica ‘pura’ abbia radici intuitive, senza le quali essa sarebbe una formazione allogena, estranea alla vita e perciò ostile. […] Ragion per cui i matematici o devono rimandare apertamente alla telepaticità della propria conoscenza, oppure devono sostenere, altrettanto apertamente, una conoscenza mediata, e con ciò introdurre legalmente nella matematica – che le ha sempre utilizzate illegalmente – le intuizioni dei vari elementi della natura e delle loro peculiarità. Ma allora l’assiomatica matematica andrà sostanzialmente rivista. Uno spostamento relativamente minimo verso l’intuitività fisica del sapere matematico (e con ciò intendo entrambi i principi della relatività) ha portato conseguenze senza numero. La revisione del pensiero matematico sarà radicale e profonda quando verrà colta con chiarezza la convenzionalità e la scolasticità del formalismo matematico moderno e verrà accolta l’idea che la matematica viene dalla vita, se ne nutre ed è al suo servizio”[84].

 

  1. Conclusione

 

A conclusione di questa analisi ci sono due aspetti da segnalare. Il primo fa riferimento al modo in cui Florenskij tratta l’illusione, che può essere sintetizzato richiamando il seguente passo, relativo a una sua lezione del 1925 al VChUTEMAS: “nell’opera intera, gli elementi vengono percepiti e valutati in modo diverso da come vengono percepiti e valutati separatamente. Si dice di solito in questi casi: ‘Non sembrano ciò che sono in effetti’, cioè sono un’illusione. Ma se anche parrà utile conservare la parola illusione in rapporto a sintesi psicofisiche che trasmettano ai singoli elementi una nuova forma, questo deve essere fatto assolutamente a condizione del rifiuto dell’espressione: ‘Non sembrano ciò che sono in effetti’. Perché gli elementi della sintesi psicofisica nell’ordine della conoscenza non sono affatto meno validi di quegli stessi elementi, presi separatamente; anzi, al contrario, il loro significato si accresce nella sintesi. Di conseguenza non si può contrapporre un sembra a un in effetti. Bisogna essere realisti e dire: ‘Gli elementi della sintesi dell’intero non sono ciò che sarebbero presi in sé stessi’, oppure giudicare tutto come soggettivo e dire con i soggettivisti: ‘Gli elementi della sintesi non sembrano quelli che sembrano in sé stessi, presi separatamente’. Che si conservi pure, se si vuole, la parola illusione, ma senza la sfumatura denigratoria verso il valore conoscitivo di ciò a cui la parola illusione viene applicata”[85].

Questo è tanto più vero se la sintesi di cui si parla è quello stato di coesistenza, di interazione e di reciproca compenetrazione degli opposti, con conseguente tensione dinamica tra di essi, che costituisce l’oggetto privilegiato della nostra analisi. Per evidenziare il senso e il valore che l’illusione assume in questo caso occorre analizzare dal punto di vista logico la proposizione “Illudersi che P”. Si tratta, palesemente, di un’espressione ponte, articolata su due livelli: in quello inferiore vi è uno stato di coscienza e in quello superiore la descrizione di una situazione oggettiva. La situazione è la medesima della proposizione: “Sapere che P”, che è anch’essa una proposizione ponte articolata sugli stessi due livelli. La differenza è che in questo caso la proposizione P è un’affermazione mentre l’illusione opera un riferimento che è del tipo “non P”, cioè una negazione, come si evince facilmente dai due esempi seguenti: “So che Napoleone è stato sconfitto a Waterloo” e “M’illudevo di spendere un po’ di meno”. Se di illusione si tratta vuol dire che, in effetti, ho dovuto sborsare di più di quanto mi aspettassi o sperassi: dunque la proposizione P “spendere un po’ di meno” è una negazione.

Sulla base di questa differenza tra le due situazioni proposte il senso comune ritiene che “illudersi” equivalga a “credere falsamente”, e quindi equipara l’illusione all’errore e all’inganno. Per convincersi che le cose non stanno così possiamo riferirci, ancora una volta, a Shakespeare e a un’altra sua tragedia. L’enunciato: “Otello credeva falsamente che sua moglie lo tradisse”, che è vero, non può essere ritenuto equivalente a “Otello s’illudeva che sua moglie lo tradisse”, che vero non è, in quanto l’illusione è una negazione di P coniugata in modo indissolubile al desiderio che la situazione descritta da P sia vera. Lo si è visto chiaramente nel caso dell’esempio “M’illudevo di spendere di meno”, dove P è una negazione che non scalfisce minimamente la verità del mio desiderio di risparmiare qualcosa rispetto a ciò che invece ho dovuto pagare. Lo stesso si può dire nel caso di Otello il quale, tralasciando complesse interpretazioni psicoanalitiche sulle sue motivazioni inconsce, sulle quali non è il caso di soffermarsi qui, non desiderava certamente il tradimento di Desdemona, ma al contrario c’è da supporre che sperasse nella sua fedeltà.

Dunque, anche dal punto di vista strettamente logico l’illusione non può essere identificata e confusa con l’inganno e con l’errore: essa appartiene a un livello categoriale differente, che va esplorato, come giustamente sottolinea Florenskij, nella sua specificità. E per farlo è necessario, ancora una volta, che i due livelli in gioco, quelli in cui si collocano, rispettivamente, lo stato di coscienza e la situazione di fatto descritta siano distinti da un confine barriera di contatto, caratterizzato da una doppia funzione di linea di demarcazione che separa e di anello di collegamento che unisce. È infatti vero che sono in gioco due livelli, uno superiore, con la descrizione di un dato di fatto, e uno inferiore riservato alla mente, ma quest’ultimo, come si è visto, si articola a sua volta in due stadi: “credere falsamente che P” e “desiderare che P” i quali sono, al contempo, separati (trattandosi di stati mentali differenti, da preservare nella loro reciproca autonomia) ma anche inseparabili (in quanto, se li si disgiunge, non abbiamo più l’illusione, ma qualcosa di diverso). Questa complessa articolazione interna degli stati mentali agisce sulla realtà e ne altera la percezione: può impoverirla, come nel caso di Otello che, perfidamente manovrato da Iago e dalle sue insinuazioni e  accecato dalla gelosia, viene orientato verso una visione unilaterale e riduttiva della sua condizione, o ampliarla in modo significativo e arricchirla, come fanno, ad esempio, la luce taborica e un’icona o, più in generale, un’opera d’arte riuscite al punto di avere un positivo effetto trasfigurante di potenziamento della capacità di vedere e dello sguardo.  In ogni caso non possiamo prescindere dalla relazione di collegamento tra la realtà e la coscienza che ne abbiamo, che è bidirezionale, come Florenskij non manca di evidenziare, facendo appello a quella che chiama “la formula del Simbolo Perfetto [Uno e Trino], ‘separato e inseparabile’, appunto, che si estende anche a qualsiasi simbolo relativo: a qualsiasi opera d’arte. Al di fuori di questa formula non esiste neppure l’arte”[86]. Ecco il significato profondo della riflessione di fulminante efficacia che egli ci propone nell’Ikonostas:  “è staccando la manifestazione fenomenica dalla sostanza che il peccato s’introduce nello sguardo”[87].  Se scindiamo la percezione dall’immaginazione, se ad esempio  priviamo l’espressione fenomenica dell’icona dipinta dalla luce taborica, che è la sostanza che le conferisce valore e che la fa diventare opera d’arte, si perde tutta la sua efficacia simbolica e s’introduce, appunto, il peccato, il diavolo, dal greco διάβολος, propriamente «calunniatore», che deriva da διαβάλλω «gettare attraverso» e quindi separare, «porre barriera, introdurre fratture» che, in senso metaforico, diventa, appunto, «calunniare».

Ciò che caratterizza l’illusione e impedisce di equipararla all’errore e all’inganno è proprio la capacità di mantenere compresenti e di far interagire i componenti costitutivi dell’intero sistema nel quale essa si articola, quella mutua correlazione che entra in gioco e la cui forza dipende dalle modalità di assemblaggio dei componenti stessi nella struttura globale – una struttura che proprio per questo va necessariamente pensata come un tutto. La divisione dei livelli in cui essa si articola, con conseguente venir meno di questo riferimento alla totalità, è un’opera diabolica proprio perché, depotenziando la forza delle illusioni, vanifica e distrugge i sogni e le speranze, condanna alla rassegnazione e così facendo introduce il peccato nello sguardo, che diventa incapace di nutrire la percezione con la forza vivificante e salvifica dell’immaginazione.

C’è un’altra caratteristica dell’illusione, dovuta proprio alla specifica articolazione interna degli stati mentali e del loro rapporto con la realtà messa in gioco da essa, che non può essere ignorata: la sua concreta incidenza nel corroborare l’ipotesi del riferimento alla coscienza come dato di fatto.  Anche la semplice illusione di essere coscienti, infatti, comporta comunque l’implicito riferimento alla coscienza, che sembra imprescindibile. Per mettere in discussione l’illusione di essere coscienti bisogna, prima di tutto, averne consapevolezza, cioè esserne coscienti. Nel caso dell’esistenza della coscienza la distinzione tra illusione e realtà, quale che sia, è problematica, perché l’illusione cosciente della coscienza è già di per sé coscienza. Ecco un’altra conseguenza dell’esigenza di mantenere due poli apparentemente opposti e mutuamente esclusivi, in questo caso quello dell’illusione e quello della realtà, in uno stato di compresenza e di reciproca compenetrazione, che genera una tensione dinamica in virtù della quale la coscienza è spinta ad approfondire la natura e la funzione dell’illusione e l’effetto di retroazione che riceve da quest’ultima in termini di corroborazione dell’ipotesi della sua esistenza.

Il secondo aspetto da evidenziare per concludere riguarda lo studio delle emozioni e dell’intelligenza emotiva, sviluppato negli ultimi anni dalle neuroscienze, che sembra corroborare in misura significativa l’idea di Florenskij basata sulla retroazione positiva tra intuizione e discorso. A dare avvio a questo specifico filone di ricerca è stato Joseph LeDoux con i suoi studi sulla base neurale della paura condizionata. “Questo tipo di paura”, come sottolinea lo stesso autore, “è un esempio di apprendimento associativo, un processo in cui il cervello forma ricordi in base alla relazione tra eventi. Nel linguaggio della teoria psicologica dell’apprendimento […], durante il condizionamento alla paura, il cervello impara la relazione tra uno stimolo condizionato (SC) e uno stimolo incondizionato (SI). Dopo il condizionamento il segnale SC diventa un segnale di avvertimento che il pericolo è imminente. Quando compare lo SC, esso suscita le risposte di paura condizionate perché attiva l’associazione SC-SI, che controlla il congelamento[88] e altre risposte condizionate alla paura. Anche se si dice che il congelamento è una risposta condizionata, la risposta non è appresa. Ciò che viene condizionato è la capacità dello SC di suscitare la risposta”[89].

Così LeDoux riepiloga e spiega il proprio itinerario di ricerca: “Ho iniziato il mio lavoro sulla base neurale della paura condizionata stabilendo quali sono le aree del sistema uditivo necessarie perché lo SC uditivo susciti le risposte di congelamento e di aumento della pressione sanguigna. Quindi, sfruttando tecniche di tracciamento delle connessioni anatomiche, ho individuato i possibili obiettivi di uscita delle principali aree di elaborazione uditiva. Uno degli obiettivi suggeriti dagli studi di tracciamento era l’amigdala. Quando abbiamo leso o scollegato dal sistema uditivo questa zona, le risposte di paura condizionata sono venute meno. All’interno dell’amigdala abbiamo anche trovato una zona che riceve l’input dello SC uditivo (l’amigdala laterale, LA) e si collega a una zona (l’amigdala centrale, CeA) che trasmette le uscite ad aree-bersaglio a valle che controllano, in modo separato, le risposte condizionate di congelamento e quelle pressori. Inoltre, nella zona di ingresso della LA siamo stati in grado di individuare le cellule che ricevono sia lo Sc uditivo sia la scossa dello SI. Questa è stata una scoperta particolarmente importante perché si pensava che l’integrazione di SC e SI a livello cellulare fosse necessaria affinché si realizzasse il condizionamento alla paura. Dopo avere identificato il circuito e i cambiamenti cellulari coinvolti nel processo, ci siamo rivolti ai meccanismi molecolari che nella LA sottostanno all’apprendimento e all’espressione della paura condizionata, molti dei quali erano stati scoperti da Kandel e altri negli invertebrati”[90].

A giudizio di LeDoux l’elaborazione dell’amigdala è automatica e non richiede né la consapevolezza conscia dello stimolo né il controllo conscio della risposta. Questa sua convinzione è suffragata e corroborata da numerosi studi che mostrano come l’amigdala sia in grado di elaborare le minacce e di innescare risposte condizionate senza che una persona sia consapevole dello stimolo reale e senza che provi alcun sentimento di paura.

I sentimenti, che sono certamente consci, sono dunque altra cosa rispetto alla loro fase di avvio, innescata dalle relazioni automatiche con l’ambiente. Nel caso, ad esempio, della reazione provocata dalla visione di immagini minacciose esperimenti con persone esposte a questo tipo di stimolo mostrano infatti che esse non hanno alcun sentimento consapevole di paura: la loro amigdala, però, viene attivata dalla minaccia e dà il via a reazioni corporee inconsce come l’aumento della sudorazione, l’accelerazione del battito cardiaco e la dilatazione delle pupille; ciò mostra che la rilevazione della minaccia e la risposta connessa sono indipendenti dalla consapevolezza conscia: sono manifestazioni corporee che non presuppongono l’intervento della mente.

I sentimenti, come quello di paura, sorgono quando acquistiamo coscienza del fatto che il nostro cervello ha inconsapevolmente rilevato un pericolo. Tutto inizia quando uno stimolo esterno, elaborato dai sistemi sensoriali del cervello, è classificato, a livello non consapevole, come una minaccia. Gli output dei circuiti di rilevamento delle minacce innescano un aumento generale dello stato di eccitamento del cervello e l’espressione di risposte comportamentali e di cambiamenti fisiologici del corpo. I segnali provenienti dalle risposte comportamentali e fisiologiche del corpo sono inviati al cervello, dove diventano parte della risposta non conscia al pericolo. L’attività cerebrale viene quindi monopolizzata dalla minaccia e dagli sforzi per affrontare i danni che essa preannuncia. La minaccia aumenta la vigilanza: l’ambiente viene monitorato per capire perché siamo eccitati in questo modo specifico. L’attività cerebrale correlata a tutti gli altri obiettivi (mangiare, bere, sesso, denaro, autorealizzazione, ecc.) viene soppressa. Se, grazie alla memoria, il monitoraggio ambientale rivela che sono presenti minacce “conosciute”, l’attenzione si focalizza su questi stimoli che sono consciamente “colpevoli” dello stato di eccitamento. La memoria ci permette quindi di sapere che “paura” è il nome che diamo a esperienze di questo tipo: a partire dall’infanzia costruiamo modelli di ciò che somiglia all’essere in uno di quegli stati che etichettiamo con la parola “emozioni”. Quando i diversi fattori o ingredienti sono integrati nella coscienza, si ha un’emozione, nello specifico il sentimento conscio di paura. Ma questo può avvenire solo se il cervello coinvolto ha i mezzi cognitivi per creare esperienze consce e interpretarne il significato e il contenuto in termini di implicazioni per la propria sopravvivenza e il proprio benessere. In caso contrario, le risposte del cervello e del corpo sono una forza motivazionale inconsapevole che dirige il comportamento con l’obiettivo di rimanere in vita, ma il sentimento di paura non è una parte del processo: questo non significa che esso sia ininfluente o che sia un semplice sottoprodotto. Una volta che si attiva ed è presente apre le porte all’uso del cervello conscio per perseguire la sopravvivenza e per prosperare.

Il nostro cervello è orientato alla sopravvivenza e a mantenere un rapporto di equilibrio con il contesto di riferimento e per farlo si vale di reazioni corporee che sono del tutto automatiche e inconsce. A guidarne il funzionamento, proprio come pensava Florenskij, è la pienezza della vita stessa, che genera reazioni corporee inconsapevoli e risposte comportamentali automatiche, a partire dalle quali si formano intuizioni che poi vengono elaborate e assemblate cognitivamente, dando luogo a quei sentimenti consci che sono le emozioni. Al centro di tutto vi è dunque il nostro corpo, che è, giova ripeterlo, materializzazione dei nostri istinti più profondi, della nostra vita più recondita. Esso però non sa solo reagire in modo meccanico: è capace anche di esprimere la coscienza, la quale “è un riflesso speculare, il punto focale immaginario di un’azione trattenuta. È evidente che, se è così, tale punto focale sarà la raffigurazione – finanche immaginaria – non di una qualche cosa, ma proprio di quella determinata azione trattenuta. I raggi che, intersecandosi, formano un quadro dell’azione trattenuta sono, pur se immaginari, la prosecuzione di quegli stessi raggi trattenuti. […] Di conseguenza l’azione può o realizzarsi direttamente, espandendosi nella sua naturale, per così dire, grandezza e disperdendosi nel mondo circostante, oppure può trattenersi, accumularsi, accrescendo il proprio potenziale, può riflettere, raccogliersi, dare una raffigurazione immaginaria, e tale immagine si realizza allora in un altro ambiente, che solo mentalmente si riflette nell’ambito della natura, e della natura pare una parte, ma che in realtà, essendo corpo, del corpo risulta essere una prosecuzione, una sorta di corpo umano germogliato nella natura”[91].

Ed è appunto questo complesso itinerario che ci autorizza a dire “com’è già stato chiarito, che la matematica si fonda sostanzialmente sull’intuizione, e per di più non su un’intuizione isolata, esangue e illecita, su un minimum di vita, bensì sulla pienezza della vita stessa”[92].

Una notazione interessante la merita l’idea dei prodotti della creazione artistica come “sogni a occhi aperti”. Vale la pena di ricordare in proposito che le neuroscienze hanno appurato la disponibilità, nel nostro cervello, di un circuito che si sottrae al prevalente orientamento all’azione. Si tratta del Default-Mode Network (DMN), una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene generalmente attivata durante le ore di riposo e di attività “passive”. Questa rete si attiva proprio quando il lavorio della mente non è rivolto a stimoli esterni ma verso il mondo interno. Pur non occupandosi delle usuali faccende quotidiane il metabolismo del cervello è intenso, cioè la corteccia consuma una gran quantità di energia e sono all’opera diverse componenti del sistema cerebrale: il lobulo parietale inferiore, la corteccia cingolata posteriore, la corteccia prefrontale ventro-mediale e la formazione dell’ippocampo. È un sistema di aree cerebrali dense e fitte di connessioni. Questa rete è associata a processi mentali definiti “immagini e pensieri non correlati a un compito” e si attiva, ad esempio, quando gli individui pensano al loro futuro costruendo una “scena mentale” basata sulla memoria episodica. Alcune sue componenti forniscono quindi informazioni provenienti da esperienze pregresse sotto forma di ricordi e associazioni che costituiscono i mattoni della similitudine mentale e dell’immaginazione.

Il DMN è pertanto fondamentale per utilizzare le esperienze passate al fine di progettare il futuro, individuare le interazioni sociali e massimizzare l’utilità dei momenti in cui ciascuno di noi non è direttamente impegnato nel mondo esterno e la sua attività mentale è diretta verso i canali interni. In queste fasi non si ha un pensiero ordinato e organizzato, ma piuttosto un agglomerato di istanti e di frammenti di esperienza interiori, miscugli saltuari fatti di sogni a occhi aperti, di fantasticherie, di monologhi interiori vaganti, di immagini vivide che contribuiscono molto alla formazione e al benessere della persona umana. Questo circuito spiega quindi alcune condizioni neuropsicologiche importanti ed evidenzia la funzione fondamentale, appunto, del “sogno a occhi aperti”, di quella sorta di mondo intermedio tra il sogno vero e proprio e il momento introspettivo, come se si fosse svegli ma non davvero presenti a sé stessi, mondo nel quale cominciano tuttavia a emergere e a prender forma le nostre fantasie e immaginazioni e le nostre visioni orientate al futuro, con i relativi progetti.

C’è un’ultima osservazione che coinvolge proprio questa rete. Un recente studio di un’équipe di ricercatori del Centro mente-cervello (Cimec) dell’Università di Trento, sviluppato in collaborazione con il Mart, Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports[93], riguarda proprio i rapporti tra il DMN e la rete di controllo esecutivo (EN) in cui sono concentrate le funzioni corticali superiori deputate al controllo e alla pianificazione del comportamento. Si tratta di processi che permettono ad un individuo di pianificare e attuare progetti finalizzati al raggiungimento di un obiettivo; queste funzioni sono inoltre necessarie per il monitoraggio e la modifica del proprio comportamento in caso di necessità o per adeguarlo a nuove condizioni contestuali.

Numerosi sono i processi che possono essere ricondotti al dominio esecutivo: attenzione, controllo degli impulsi, autoregolazione, iniziativa, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva, utilizzo dei feedback, pianificazione e problem solving. Come si vede si tratta di processi razionali, concernenti la selezione e la valutazione delle idee, il controllo cognitivo, il pensiero astratto, la presa di decisioni riguardanti, nel loro complesso, quella che Florenskij chiama l’area del discorso, mentre il DMN, associato ai processi mentali e pensieri non correlati a un compito, e il cui esito è costituito da immagini, visioni, sogni a occhi aperti, può senza forzature essere assimilato all’ambito del pensiero spontaneo, a quella che il teologo e filosofo russo definisce intuizione. Due processi mentali antinomici, dunque, contrastanti al punto da indurci a ritenere che si escludano a vicenda e non possano essere compresenti. Lo studio citato analizza proprio la loro relazione reciproca basandosi sulla risonanza magnetica funzionale (fMRI) per misurare la connettività funzionale tra di essi in tre diverse condizioni: riposo, immagini visive dell’alfabeto e progettazione di un’opera da eseguire immediatamente dopo la sessione di scansione.

Ebbene si è riscontrata una maggiore connettività tra queste due reti cerebrali nel corso di un’attività creativa, per cui gli esiti ottenuti inducono a ritenere che ciò che chiamiamo creatività comporti una riduzione della competitività (e dunque della contrapposizione antinomica) tra pensiero spontaneo e controllo esecutivo razionale, la loro convergenza e un equilibrio ottimale tra di essi: lo sforzo mentale alla base dell’immaginazione e della produzione di idee innovative parrebbe di conseguenza l’esito di un sottile equilibrio tra selezione e generazione che coinvolge diverse regioni del cervello che normalmente lavorano in alternanza.

Si tratta pertanto di un risultato che sembra corroborare l’idea di Florenskij che alla base del percorso che conduce all’approssimazione al vero vi sia l’“esperienza dell’antinomicità” tra intuizione e discorso e il suo graduale e parziale superamento in quelle che, come abbiamo visto, egli chiama le radici intuitive della logica pura. E che avvalora, di conseguenza, la sua convinzione che il blocco, la paralisi e l’inazione non siano l’esito fatale della presenza e dell’incidenza dell’antinomia, che può al contrario costituire la forza propulsiva di un significativo sviluppo e arricchimento del vissuto dell’uomo ed essere vista per questo come un’imprescindibile opportunità.

 

 

 

[1]W. Shakespeare, Amleto, Atto I, scena V.

[2]Ivi, p. 28.

[3] P.A. Florenskij, Amleto, edizione italiana a cura di A. Dell’Asta, trad. di S. Zilio, Bompiani, Milano, 2004, 54.

[4]Ivi, 50.

[5]Ivi, 41.

[6]Ivi, 42-43.

[7]Ivi, 46.

[8]Ivi, 53-54.

[9]Ivi, 60.

[10]Ivi, 62.

[11]Ibidem.

[12]Ivi, 45.

[13]Ibidem.

[14]Ivi, 69.

[15]Ibidem.

[16] G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi. Torino 1967, 65 (il corsivo è mio).

[17] Ivi. 40.

[18] P.A. Florenskij, I tipi di crescita, in ID., Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di N. Valentini e A. Gorelov, Bollati Boringhieri, Torino 2007, 82.

[19] La Sacra Bibbia, 1 Lettera ai Corinzi, 13, 9-12, C.E.I., Ed. San Paolo, 2009.

[20] Gregorio Palamas, Che cos’è l’Ortodossia, a cura di E. Perrella, Bompiani, Milano 2006, 559-561.

[21] Ivi, 347-349.

[22] J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1953/1954), vol. i, tr. it. in Scritti, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, 89 sgg.

 

[23] Queste citazioni sono tratte da M. El Meskin, L’esperienza di Dio nella preghiera, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, 1999, a cui si rimanda per un proficuo approfondimento.

[24] La Sacra Bibbia, cit., Matteo 5-14.

[25] La Sacra Bibbia, Matteo 17,2, C.E.I., Ed. San Paolo, 2009.

[26] Citazione tratta da Gregorio Palamas, L’uomo mistero di luce increata, Edizioni Paoline, Milano 2005, p. 133 n.

[27] Synodikon dell’Ortodossia, in I padri esicasti. L’amore della quiete L’esicasmo bizantino tra il XIII e il XV secolo, (ho les esychias eros), Antonio Rigo (a cura di), introduzione, traduzione e note, Edizioni Qiqajon (Comunità di Bose), Magnano 1993, 173.

[28] R. Steiner, Storia dell’arte specchio di impulsi spirituali, Editrice Antroposofica, Milano 1996.

[29] La Sacra Bibbia, cit., Lettera ai Corinzi, 2.

[30] Gregorio di Nissa, In Cantica Canticorum homilia, viii, PG 44,941C.

[31] P.A. Florenskij, Il timore di Dio, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, a cura e con Introduzione di N. Valentini e L. Žak, tr. it. Di R. Zugan, Piemme, Casale Monferrato 1999, 270.

 

[32]M. Heidegger, L’abbandono, Il Nuovo Melangolo, Genova 2004, 81.

[33]Ivi, 29.

[34]Ivi, 30.

[35]Ivi, 31.

[36] P.A. Florenskij, Le porte regali, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano 2007, 19-20.

[37] P. Florenskij, Detjam moim, Moskovskij rabočij, Moskva, 1992, tr. it. Ai miei figli. Memorie di giorni passati, A. Mondadori, Milano, 2003, 157.

[38] P. A. Florenskij, La venerazione del nome come presupposto filosofico, in Id., Il valore magico della parola, traduzione e a cura di G. Lingua, Medusa, Milano, 2001, p. 28; Id. Il simbolismo delle visioni, in Id., Sočinenija v četyrech tomach (Opere in quattro volumi), cit., vol. III/1, 1999, 424.

[39] P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura di N. Misler, Adelphi, Milano, 1995, 356.

[40] P.A. Florenskij, Il valore magico della parola, in Id., Il valore magico della parola, traduzione e a cura di G. Lingua, Medusa, Milano, 2001. P. 51. Lo stesso saggio è presente, con il titolo La natura magica della parola e nella trad. it. di E. Treu, in D. Ferrari-Bravo, Slovo. Géométrie della parola nel pensiero russo tra ‘800 e ‘900, Edizioni ETS, Pisa 2000, 165-211.

[41] P.A. Florenskij, Imjaslavie kak filosofskaja predposylka, tr. it. La venerazione del nome come presupposto filosofico, in Id., Il valore magico della parola, cit., 33.

[42] Ivi, 24-25.

[43] P. A. Florenskij, Il valore magico della parola, cit., 67-68.

[44] P.A. Florenskij, La venerazione del nome come presupposto filosofico, in Id. Il valore magico della parola, cit., 21.

[45] P.A. Florenskij, Il valore magico della parola, cit., 33. La traduzione alla quale ci siamo riferiti in questo caso è quella che compare in D. Ferrari-Bravo, E. Treu, La parola nella cultura russa tra ‘800 e ‘900. Materiali per una ricognizione dello slovo, Tipografia Editrice Pisana, Pisa, 2010, 447, dove viene corretto il termine “isotopo”, che compare nella traduzione di G. Lingua, evidente refuso, sostituendolo con “isòtropo”.

[46] P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, nuova edizione a cura di N. Valentini, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 194.

[47]C. Diamond, L’immaginazione e la vita morale, ed. it. a cura di P. Donatelli, Carocci, Roma 2006, 176.

[48] L. Wittgenstein, Tractatuslogico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1974, 79.

[49] W.J. Freeman and G. Vitiello, Matter and Mind are Entangled in Two Streams of images Guiding behavior and Informing the Subject Through Awareness, ‘Mind and Matter’, vol. 14 (1), 2016, 7-24.

[50] C. Bernard, Leçons sur les phénomènes de la vie communs aux animaux et végétaux, Paris, Baillière 1878-1879.

[51] W.B. Cannon, Organization for physiological homeostasis, «Physiological reviews», 9, (1929), 399-427.

[52] W.B. Cannon, The  Wisdom of the Body, W.W. Norton & CO, New York 1932.

[53] F. Varela, E. Thompson, E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Fetrinelli, Milano 1992, 170-171.

[54] A. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000, 57.

[55]Ivi, 363.

[56] N.N. Taleb, N.N. (2012), Antifragile: Things That Gain from Disorder, Allen Lane, London 2012 (tr. it. Antifragile. Prosperare nel disordine, Il Saggiatore, Milano 2013).

[57] H. von Glasenapp, Jainiusm: an Indian Religion of Salvation, MotilalBanarsidass, Delhi 1999, 270.

[58] G. Caglioti, Simmetrie infrante nella scienza e nell’arte, CLUP, Milano 1983, II edizione CittàStudi Edizioni, Milano 1994 (ed. inglese, The Dynamics of Ambiguity, Springer, Berlin – Heidelberg – New York 1990); ID., Eidos e Psiche. Struttura della materia e dinamica dell’immagine, Illisso, Nuoro 1995; ID., Casanova e la scienza, Moretti & Vitali, Bergamo 1998.

[59]G. Caglioti- T. Tchouvileva, La bellezza salverà il mondo, in G. Giorello e E. Sindoni, L’uomo, i Limiti e la Speranza. Una rotta verso il Terzo Millennio, Ediizoni Piemme, Milano, 1995; G. Caglioti- T. Tchouvileva, Estetica e sue radici scientifiche, in Terzo Millennio: L’Uomo, i Limiti e la Speranza, Atti del Convegno internazionale (Varenna, 2-6 ottobre 1994), Edizioni Angelicum, Milano 1995.

[60]G. Caglioti, Il senso del bello: un criterio per la sopravvivenza e uno stimolo alla creatività, in ‘Lombardia Nord-Ovest’, 1, 2001, 17.

[61]Ivi, 23.

[62] C. Frith, Making up the mind, How the brain creates our mental world, Blackwell, Oxford 2007, 23 e 44 (tr. it. Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, Raffaello Cortina, Milano 2009, 167).

 

[63] P.A. Florenskij (1914), La colonna e il fondamento della verità, a cura di N. Valentini, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 172.

[64] Ivi, 30.

[65] Ivi, 32.

[66] Ivi, 27.

[67] Florenskij chiama il giudizio mediato la diskursija, perché, in questo caso, la ragione discurrit, ricorre a un altro giudizio. Pietro Modesto, nella sua traduzione italiana, per mantenere il significato originario di questo termine usa la parola discursio.

[68] Ivi, 41.

[69] Ivi, 160.

[70] Ivi, 51-52; cfr. L. Žak, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Città nuova, Roma 1998, 224-245.

[71] P.A. Florenskij (1927), Avtoreferat, in Id. Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, a cura di N. Valentini e A. Gorelov, Bollati Boringhieri, Torino 2007, 3-12.

[72] Ivi, 8-9.

[73] Ivi, 12.

[74] Ivi, 6-7.

[75] P.A. Florenskij (1917), La simbolica delle visioni, in Id., Il simbolo e la forma, 188.

[76] P.A. Florenskij (1992), La prosecuzione dei nostri sensi, in Id., Il simbolo e la forma, 156-157.

[77] Ivi, 157.

[78] P.A. Florenskij (1922a), La simbolica delle visioni, 192.

[79] P.A. Florenskij (1922b), Lo strumentario, in Id., Il simbolo e la forma, 202.

[80] Ibidem.

[81] P.A. Florenskij (1917), Homo faber, in Id., Il simbolo e la forma, 126.

[82] Ivi, 127.

[83] P.A. Florenskij, Lo strumentario, 206.

[84] P.A. Florenskij (1932), La fisica al servizio della matematica, in Id., Il simbolo e la forma, 292 e 295.

[85] P.A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano, 1995, 206-207.

[86] Ivi, 98.

[87] P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano 1977, p. 48.

[88] Il congelamento (immobilità forzata o freezing) è un paradigma sperimentale molto usato, in cui l’animale, di solito un roditore, reagisce paralizzandosi completamente per alcuni secondi, come se fosse appunto congelato, quando viene esposto a uno stimolo incondizionato che produce paura (come una scossa elettrica).

[89] J. Ledoux, Ansia. Come il cervello ci aiuta a capirla, Raffaello Cortina, Milano 2016, 57.

[90] Ivi, 59.

[91] P.A. Florenskij, La prosecuzione dei nostri sensi, 158.

[92] P.A. Florenskij, La fisica al servizio della matematica, 296.

[93] N. De Pisapia – F. Bacci – D. Parrott – D. Melcher, Brain networks for visual creativity: a functonal connectivity study of planning a visual artwork, Scientific Reports 6, Article number 39185, Published online 19 December 2016: https://www.nature.com/articles/srep39185 (20.06.2017).

Pavel Florenskij oltre Amleto. L’antinomia dalla paralisi all’opportunità

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *