La riflessione sulla città e sui problemi del “progetto urbano” oggi, da me avviata insieme a Giovanni Maciocco e che ha condotto, inizialmente, alla pubblicazione del volume La città possibile, del 1997, prendeva le mosse da un’acuta riflessione propostaci da Italo Calvino in una delle sue ultime pagine, che figura in quelle Lezioni americane (Garzanti, Milano, 1988) da lui pensate come viatico per il prossimo millennio:

” Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze…

Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d’estraneità e di disagio.

Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura”.

In quella mia prima esperienza di collaborazione con Giovanni Maciocco scrivevo che c’è in questo passo un’associazione, che non può passare inosservata e non può non colpire, tra l’impoverimento del linguaggio e delle immagini con cui cerchiamo di comprendere il mondo e di raffigurarcelo, esprimendone la natura, e l’impoverimento del mondo. Questa associazione svela in modo impietoso e radicale l’inconsistenza di “quella che possiamo chiamare la ‘sindrome di Dorian Gray’, e cioè la speranza che l’impoverimento che ci circonda riguardi esclusivamente il ritratto che ci facciamo del mondo, vale a dire i nostri linguaggi rappresentativi e descrittivi, le nostre teorie ed esperienze, e non anche il mondo, la realtà a cui tutto ciò si riferisce. E in questa sindrome c’è la segreta speranza che a questo deterioramento si possa un bel giorno porre fine semplicemente ripristinando il nostro legame con il mondo e rimettendoci in sintonia con esso, in modo che ciò che noi sappiamo e diciamo di esso possa tornarne a riecheggiarne la ricchezza, la complessità e l’articolazione. Dunque a imbruttire progressivamente non sarebbe la realtà, ma l’immagine che noi ne proponiamo: e come rimedio basterebbe, allora, tornare a scoprire e a contemplare il suo vero volto”.

Calvino ci ha dunque lasciato in eredità, come tema e motivo sul quale sviluppare un’approfondita riflessione, la sua sensazione che la cultura contemporanea sia vittima della stessa sindrome del narcisista paradigmatico, protagonista del romanzo del 1890 di Oscar Wilde, che consegna a un quadro meravigliosamente espressivo la parte negativa della sua sostanza psichica e morale, compiacendosi del fatto che sia quest’immagine fedele a imbruttire progressivamente per l’invecchiamento naturale e soprattutto per le repellenti dissolutezze del protagonista, mentre quest’ultimo rimane bellissimo e giovane. Come nella fiaba metaforica del poeta inglese, infatti, la causa della malattia della nostra cultura sta, almeno in parte, nella distorta soluzione che viene data al  problema del rapporto tra “realtà” e sua rappresentazione.

Questa diagnosi viene condivisa da Alain Berthoz, ingegnere, psicologo e neurofisiologo, direttore del laboratorio di fisiologia della percezione e dell’azione del Collège de France, che in un libro uscito anch’esso nel 1997, Le sens du mouvement,  analizza, tra l’altro, le conseguenze di questa distorsione sul lavoro degli architetti e degli urbanisti contemporanei. A suo giudizio, infatti, proprio la carente riflessione sulla natura della rappresentazione porta l’architettura del nostro tempo a dimenticare, a parte qualche eccezione come Niemeyer, André Bruyère o Ricardo Porro, che le strutture non sono soltanto una combinazione statica di forme, ma vengono anche suscitate ed estratte dal movimento, sono cioè il risultato della capacità non solo di descrivere e rappresentare la realtà così come ci si presenta, ma anche di ipotizzare il possibile e di predire il futuro. In questo modo viene arbitrariamente semplificata e gravemente distorta la relazione che, attraverso la percezione e la cognizione, dovrebbe sussistere tra l’organizzazione interna del cervello e la realtà ad esso esterna.. Il risultato, a suo parere, è che ciò che gli architetti “hanno costruito e che continuano a costruire rappresenta un dramma per il nostro cervello, per le sue emozioni, per il suo piacere del movimento”.

Per capire il senso di un giudizio così severo è necessario riferirsi alla distinzione tra due possibili interpretazioni della mimesis. Secondo la più nota, risalente, com’è noto, al Sofista di Platone, mimesi è l’attività dell’artista e dell’artigiano come riproduzione, rappresentazione riproduttiva “somigliante” alla realtà esterna.

Da questo punto di vista la mimesi è imitazione, rappresentazione, immagine, ritratto, rappresentazione teatrale (Aristofane). Proprio per questa sua connotazione, questa prima modalità di intendere il termine in questione è alla base della concezione della percezione come assimilazione in qualche modo passiva, da parte del nostro apparato sensoriale prima e cognitivo poi, delle forme e strutture della realtà esterna.

Ma c’è un’accezione alternativa del termine medesimo, che può essere fatta risalire a uno strato più arcaico dell’evoluzione culturale, nel quale la mimesi, invece, “si riferiva alla danza e aveva un significato del tutto diverso: significava cioè l’espressione dei sentimenti e la manifestazione delle esperienze attraverso il movimento, il suono e le parole”.

Secondo questa interpretazione, la mimesi risale alla tradizione della danza e del rito dionisiaco e avrebbe il significato di una forma espressiva incarnata  nel gesto fisico e nell’azione, che coinvolge l’intera corporeità, e che può essere considerata in qualche modo l’origine dell’idea, secondo la quale le relazioni tra percezione e azione costituiscono un modello privilegiato per lo studio delle funzioni del sistema nervoso. In base a questa idea, quando noi percepiamo il mondo così come lo percepiamo, spesso tendiamo a dimenticare che noi abbiamo agito in modo da percepirlo come tale.

Abbiamo così una contrapposizione tra lo strato concettuale, astraente, simbolico della rappresentazione, e lo strato più arcaico dell’espressione, che riemerge nella gestualità fisica, nei rituali della danza e della mimica e, più in generale, in tutti i processi nei quali “il livello del controllo della coscienza desta cede il passo a un più profondo livello di en-actement. La manifestazione del gesto mimetico non rappresenta, ma appunto esprime con tutto l’essere corporeo, al di là di ogni controllo intenzionale e di ogni dominio della volontà costruttiva”.

Il problema che viene così sollevato e posto al centro dell’attenzione è quello del differente statuto tra le due possibili accezioni e idee di mimesis, che si riferiscono, rispettivamente, al concetto di rappresentazione e a quello di azione. Questa differenza si manifesta, in via prioritaria, nel fatto che, a differenza della prima, quest’ultima non sta per qualcos’altro, come nel caso dei segni, ma è una presenza, il risultato della capacità del corpo di esprimere direttamente propri impulsi interiori, sotto forma, ad esempio, di danza o di musicalità della poesia, cioè di quella sonorità, anche elementare, di quel ritmo che il poeta ascolta nella propria voce e trasmette all’ascoltatore, catturandone l’attenzione, prima ancora che attraverso il riferimento a un oggetto o a una descrizione, mediante, appunto, l’azione del canto come espressività o affettività,

Mentre dunque la prima accezione di mimesis orienta verso un’idea della percezione come risultato di un’egemonia della realtà esterna, che detta e in qualche modo impone ai nostri sensi e al nostro apparato cognitivo le forme e le strutture che la caratterizzano, la seconda pone in primo piano il contributo che alla costruzione di queste forme e strutture forniscono gli stati interni dell’uomo, facendo così emergere un aspetto che  viene messo in rilievo con grande decisione proprio da Berthoz : il fatto cioè che se prendiamo in considerazione quel complesso processo di integrazione, da cui scaturisce il significato di un messaggio qualunque, dobbiamo convenire che “ è il campo ricettore, e non lo spazio esteriore, ad essere il sistema di referenza pertinente per questa integrazione. Questo processo di fusione si realizza nello spazio dei campi ricettori e non ricostruendo a livello centrale lo spazio cartesiano esterno”. Osservazione che ben si inserisce all’interno dell’approccio teorico generale proposto dal libro di cui stiamo parlando, ben sintetizzato da un passo successivo: “La percezione non è una rappresentazione: è un’azione simulata e proiettata sul mondo. Il quadro che ne risulta non è un insieme di stimoli visuali: è un’azione percettiva del pittore che ha tradotto, col suo gesto, su un supporto vincolante un codice che evoca immediatamente non già la scena rappresentata, ma quella che egli ha percepito. Il dipinto ci colpisce perché è riuscito a riprodurre all’inverso il miracolo delle immagini di Lascaux. Io guardo il quadro invece del pittore che vi ha proiettato la sua attività mentale. Il genio è colui che mi guida a percepire come lui”.

Nelle mie ricerche di epistemologia del progetto ho preso avvio dalla constatazione che la questione riguardante quest’ultimo deve, a mio parere, deve essere inserita all’interno di una prospettiva teorica generale di questo tipo, che si rifà esplicitamente alla seconda delle due accezioni di mimesis prese in considerazione e che è l’unica che possa dar conto della sua specifica natura di ponte tra senso della realtà e senso della possibilità e di capacità di stabilire quell’equilibrio armonico tra questi due sensi di cui parla Musil nell’Uomo senza qualità:

“Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora, ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è”.

Vista in quest’ottica la critica che Berthoz muove agli architetti e agli urbanisti contemporanei è quella di aver spesso dimenticato proprio questa specifica natura del progetto come continua scommessa che deve tener conto, ovviamente, dei vincoli posti dalla realtà, ma deve altresì rimanere aperta a uno spettro di possibilità, con le quali giocare, cadendo così nella trappola di un’ esaltazione unilaterale dei vincoli a scapito del sistema delle opportunità che dovrebbe restare disponibile una volta che essi vengano definiti e fissati.

Il risultato di questa sopravvalutazione del senso della realtà e dei vincoli che quest’ultima impone, a scapito del senso della possibilità e del piacere di predire il futuro, di scommettere sul vero e sul falso, che è intrinsecamente legato ad esso, è, come sottolinea ancora Berthoz,che “nostro sguardo viene richiuso in sinistre prigioni di linee che, invece di giocare le une con le altre, si incrociano con un solo angolo che mai permetterà loro di essere altro che uno scontro, un incidente, uno shock doloroso: l’angolo retto. In questo modo viene interposto “tra me e la città uno schermo, che mi impedisce di toccarla, di palparla con il mio sguardo. Essa non è dunque un oggetto verso cui si dirige il mio desiderio, ma un muro contro cui il mio sguardo rimbalza. Non riflette più il peso ella neve che deve scivolare sui tetti, il soffio del vento contro cui lottano vigorose strutture, lo scorrere dell’acqua, il lento movimento del sole, il gesto di aprire la finestra…”.

Così si finisce col dimenticare che le forme e le strutture non sono solo limitazione e costrizione, ma anche libertà al servizio dell’immaginazione e del desiderio di agire dell’uomo: l’esigenza di rappresentare lo spazio e la realtà non può essere vista in contrapposizione alla creatività umana, ma deve tornare a essere concepita come una delle forme e delle modalità di espressione di essa. E’ sbagliato ritenere che i diritti di ciò che chiamiamo realtà possano essere rispettati soltanto  riferendosi a un modello che la presenti come un  insieme di oggetti definiti in tutto e per tutto che l’uomo si deve limitare a rappresentare- fissare: è molto più corretto e funzionale pensarla invece come una sorta di trama informativa da assumere come il punto di partenza di una serie molteplice di letture, interpretazioni e manipolazioni differenti, aperta a una possibilità di conversione presso che illimitata.

Un utile punto di riferimento, a questo proposito, può essere costituito dall’analisi del tipo di relazione che sussiste tra un organismo vivente e l’ambiente, proposta da Gibson, il quale mette in campo, per descrivere questo rapporto, il termine “risorsa” (affordance), da lui coniato, e che è divenuto, successivamente, il concetto essenziale nella psicologia ecologica. Secondo Gibson “le risorse disponibili nell’ambiente sono ciò che esso offre all’animale”. Esempi di “risorse” in questo senso possono essere, ad esempio, superfici d’appoggio, oggetti che, come un tronco d’albero, possono essere usati da un gatto per arrotarsi le unghie e da un uomo per sedersi, sostanze commestibili, o eventi climatici. Una volta scoperta, una risorsa ha valore e significato per l’animale –negativo o positivo che sia- in quanto è legata alla sua sopravvivenza, potendola favorire o mettere in pericolo”.

Ci troviamo dunque di fronte non ad una sola, ma ad una coppia di tendenze e capacità, entrambe oggettive. E’ vero che la risorsa disponibile esiste, sia che venga percepita o no, e appare caratterizzata da tendenze oggettive; altrettanto vero, però, e gli esempi fatti lo evidenziano nel modo migliore, è che esiste una capacità, altrettanto oggettiva, diffusa nel mondo animale non solo di riconoscere risorse nell’ambiente, ma anche di vederle e utilizzarle in modo differenziato (cioè di considerarle “risorse” in maniera diversa e per obiettivi e scopi del tutto differenti tra loro, come “arrotarsi le unghie” (da parte del gatto) e “sedersi” (da parte dell’uomo) nel caso della medesima risorsa “tronco d’albero.

Se la questione del progetto e della specifica cultura che la sua elaborazione presuppone ed esige viene inserita all’interno di questo quadro teorico generale se ne può facilmente ricavare che l’ostacolo maggiore alla tensione verso questo tipo di cultura è il modo di vedere, quella che possiamo chiamare “la strategia dello sguardo”, che incide profondamente sul nostro modo di percepire e vivere l’ambiente in cui viviamo. Questa strategia è spesso espressione di un tipo di visione unilaterale e di un pregiudizio che funziona alla stregua della vecchia trappola indiana per le scimmie, di cui parla Pirsig: “La trappola consiste in una noce di cocco svuotata e legata a uno steccato con una catena. La noce di cocco contiene del riso che si può prendere attraverso un buco. L’apertura è grande quanto basta perché entri la mano della scimmia, ma è troppo piccola perché ne esca il suo pugno pieno di riso. La scimmia infila la mano e si ritrova intrappolata – esclusivamente a causa della rigidità dei suoi valori. Non riesce a cambiare il valore del riso. Non riesce a vedere che la libertà senza riso vale più della cattura con”.

A fungere da “riso”, nel caso specifico, è una visione del domani inadatta a recepire il senso profondo del cambiamento che stiamo vivendo e delle radicali innovazioni che caratterizzano il nostro presente. Questa «trappola» riguarda, dunque, la questione, fondamentale, del tempo e del rapporto con esso ed è frutto dell’incapacità di rendersi conto che, oggi più che mai, il passato ci può certo fornire casi istruttivi ed emblematici ma non risposte e ricette efficaci perché non esiste mai un’esatta replicabilità. Questo tema è al centro di un libro provocatorio di Nassim Nicholas Taleb, intitolato, non a caso, Il Cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita, in cui l’autore pone il problema della crescente difficoltà di pensare un futuro che non sia il risultato di un’estrapolazione del presente, di una proiezione dell’oggi sul domani, e che, proprio perché considerato in questo modo, si ritiene possa essere affrontato facendo riferimento agli stessi quadri concettuali imperanti ed egemoni al momento. Se si segue questa strada, infatti, non si può che avere un “apprendere all’indietro”, che pensa di potere e dover fare a meno di ogni riferimento all’insolito, al “non prevedibile” in quanto “non estrapolabile” e perciò, per definizione, “non normale”.

Chi segue un simile approccio non è in grado di pensare un domani che non si presenti con la faccia, “algoritmica”, del futuro come risultato di una successione regolare e della proiezione spontanea del “prima” sul “poi”, ma che sia invece concepito come “avvenire”, carico di imprevedibilità, e perciò denso di rischi, ma anche di speranze e di opportunità.

Alla scimmia di Pirsig va contrapposta l’idea di una persona “progettuale”, convinta che spetti all’azione dell’uomo “tessere” in modo proattivo ed efficace i diversi fili che compongono il suo stare nel mondo, e che sia perciò costantemente impegnata a esprimere una capacità costruttiva che la metta in grado di affrontare le sfide del presente e del futuro prossimo in forme e modalità che siano all’altezza della posta in gioco.

Le Pubblicazioni  sull’ Epistemologia del Progetto sono le seguenti:

1.  La città possibile, ( in collaborazione con G. Maciocco), Dedalo, Bari, 1997;
2.  L’albero flessibile. La cultura della progettualità, Masson, Milano, 1997;
3.  Reti  di  città  e  processi  di  modernizzazione, in  G.  Mura,  A.  Sanna, Paesi e Città della Sardegna, CUEC,
Cagliari, 1999, pp. 103-113
4.  Desolate  Lands,  desolate  Minds:  the  therapeutic  function  of  the  project, ‘Plurimondi’  ; An  International Debate on human settlements, n. 3, 2000, Wastelands, Dedalo, Bari, pp. 29-46;
5.  La didattica e il progetto, ‘Tuttoscuola’, n. 428, gennaio 2003, pp. 21-24 e n. 429, febbraio 2003, pp. 28-37;
6.  Postfazione-Postface, in F. Spanedda, a cura di, Progetti di territori-Projects for territories, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 220-235;
7.  Il progetto come risultato di un programma di ricerca, ‘Territorio’, 28, 2004, pp. 121-128;
8.  Epistemologia  della  condivisione, in  M.  Bertoldini,  A,  Campioli,  A.  Mangiarotti,  a  cura  di,  Spazi  di
razionalità e cultura del progetto, Clup, Milano, 2004, pp. 89-129;
9.  Le due vie della percezione e l’epistemologia del progetto, Franco Angeli, Milano, 2005;
10.  Figure della mancanza, in ΤΟΠΟΣ e PROGETTO. La mancanza, Gangemi, Roma, 2006, pp. 91-104:
11.  L’epistemologia  del  progetto  come  cultura  della  complessità, in  M.  Bertoldini,  a  cura  di,  La  cultura politecnica 2, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 117-151;
12.  175)  Estategar:  principi  basilari  per  l’elaborazione  di  una  teoria  strategica. ‘FISEC-Estrategias’  Revista académica del Foro Iberoamericano sobre Estrategias de Comunicación -Facultad de Ciencias Sociales de la
Universidad Nacional de Lomas de Zamora, Año III, Número 6, Vdossier, pp.3-130-ISSN 1669-4015 (09-04-2007)  URL  del  Documento  : http://www.cienciared.com.ar/ra/doc.php?n=605URL de la Revista :
http://www.fisec-estrategias.com.ar
13.  Il  progetto  e  il  mondo  intermedio,  in  A.  Piva,  F:  Bonicalzi,  P.  Galliani, Archtiettura  e  politica, Gangemi, Roma, 2007, pp. 49-59;
14.  Il  governo  locale  e  l’organizzazione  di  rete, in  E.  Vitello, Autonomia  e  governance  del  sistema  educativo lombardo, Fratelli Ferraro editori, Pozzuoli, 2007, pp. 72-89,
15.  Maciocco G., Tagliagambe S., People and Space. New Forms of interaction in City Project, Springer-Verlag Berlin, Heidelberg, New York, 2009;
16.  Città e spazio pubblico. Organizzazione delle reti e nuove conoscenze, in C. Altini, a cura di, Democrazia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 413-447;
17.  Strategie per la riqualificazione urbana, in ‘Territorio’, Rivista trimestrale del Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, Nuova serie, n. 56, 2011, pp. 7-13;
18.  La città e le nuove modalità di costruzione degli spazi pubblici, in L.M. Plaisant, a cura di, I luoghi della vita, Edizioni Della Torre, Cagliari, 2013, pp. 63-100;
19.  Ruolo  e  qualità  del  progetto,  in  V.M.  Corte, Entanglement  nell’architettura.  Il  progetto  per  il  complesso monumentale del san Nicolò a Trapani come Case History, Aracne, Roma,2013, pp. 383-451;

20. “To design is to design oneself”, City, Territory and Architecture 2014, 1:8, (16 May 2014), ISSN: 2195-2701 (electronic version), http://www.cityterritoryarchitecture.com/content/1/1/8;

21. La novità e il successo di un progetto formativo. Il caso della Facoltà di Architettura di Alghero, in E. Cicalò, a cura di, Progetto, ricerca, didattica. L’esperienza didattica di una nuova Scuola di Architettura, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 45-67.

Segnalo anche il Corso multimediale sviluppato per Unisofia relativo all’insegnamento svolto presso la Facoltà di Architettura di Alghero Università di Sassari negli anni 2007 e seguenti.