I miei scritti sulla politica prendono avvio dalle conseguenze del deterioramento dello spazio pubblico, della distruzione di quello che la Arendt chiama «infra», che è poi lo “spazio intermedio”, da cui originano leggi, costituzioni e partecipazione. Il singolo, nel suo isolamento, non è mai libero e la libertà, pertanto, trae sempre origine dall’infra che si crea soltanto dove e quando si radunano molte persone, e che può sussistere soltanto finché esse rimangono insieme e si parlano, si confrontano, dialogano, ragionano di beni comuni e di benessere di tutti.

Nel mondo greco lo spazio infra era limitato spazialmente dalle mura delle città, coincideva con la polis al di fuori della quale non era possibile essere uomini politici. Oggi si estende al mondo nella sua globalità. Per questo, come scrive appunto la Harendt, “l’infra è ciò che è autenticamente storico-politico […]; non è l’uomo a essere uno zoon politikon, o a essere storico, ma gli uomini, nella misura in cui si muovono nell’ambito che sta tra di loro”, nello spazio intermedio che li unisce.

Il concetto di pluralità come possibilità di esistenza dell’infra è dunque importante per Hannah Arendt per definire la libertà politica e, in negativo, anche per definire il totalitarismo (come assenza di pluralità, cioè, come assenza di spazio fra un individuo e l’altro).
 In “Ideologia e terrore” – l’ultimo capitolo di Le origini del totalitarismo – la stessa Arendt teorizza proprio la distruzione di questo infra come segno distintivo del totalitarismo, che sostituisce ai limiti e ai canali di comunicazione fra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico uomo di dimensioni gigantesche, un ego smisurato che pretende di rappresentarli tutti senza differenze. Il tratto distintivo del totalitarismo in tutte le sue forme e tipologie, apparentemente soffici o dure che siano, sta quindi proprio nel fatto di abolire i confini fra le persone, premendo gli uomini uno contro l’altro.Per questo lo spazio intermedio, questo spazio tra gli uomini, può essere legittimamente considerato presupposto indispensabile e precondizione della libertà e della democrazia e diviene, di conseguenza, un tema sempre più importante e affascinante per l’idea e la visione della politica, dal momento che è proprio questo intervallo che assicura la pluralità, l’esistenza di individui non schiacciati l’uno sull’altro.
 L’infra è uno spazio che tiene in relazione gli individui: questi stanno insieme, però sono anche distinti gli uni dagli altri.

Lo spazio infra, lo spazio della politica di cui parla la Arendt, non ha nulla a che fare con lo spazio gremito, dal momento che, come ben sappiamo, l’uomo può essere profondamente solo e tremendamente isolato anche in uno spazio gremito. La sosta in un qualunque aeroporto o l’esperienza degli acquisti in una Città mercato sono esemplari in proposito.

Ciò che segna la differenza profonda tra lo spazio infra e lo spazio gremito è il fatto che nel primo, ma non necessariamente nel secondo, si ha contatto, si ha scambio, si ha dialogo, si ha riconoscimento reciproco, si ha partecipazione autentica, si ha il senso profondo e sempre emozionante di una comunità che si forma e che vuol far sentire la propria voce.

C’è un’altra differenza, anche questa fondamentale, sulla quale ho concentrato l’attenzione: quella tra lo spazio accessibile al pubblico, lo spazio dove tutti potrebbero entrare, e per lo più si guardano bene dal farlo, e lo spazio autenticamente pubblico, quello dove le persone entrano e si sentono subito a casa loro, perché possono parlare liberamente, perché possono muoversi liberamente, perché pensano e sentono di essere tra sodali, nel senso letterale di compagni di vita, di cammino, di fiducia e di speranza.

I miei scritti sulla politica vogliono essere un invito forte e chiaro a quest’ultima a riacquistare il senso della collettività, a rilanciare occasioni di integrazione e di sinergia interna, a riacquistare una sua dimensione etica e culturale, a tornare a prendere in seria considerazione gli aspetti che la legano al luogo, alla specifica conformazione e organizzazione di quest’ultimo, alla sua storia, alla sua cultura, alle sue tradizioni, ai suoi obiettivi e valori, al destino di un popolo. Da questo punto di vista essa non può che essere spazio di attrito e di resistenza rispetto a quella omologazione spuria che vorrebbe cancellare le specificità e le differenze, dimenticando che il segno è differenza, che il significato è differenza, che la politica deve fare differenza e dare significato specifico all’impegno di ciascuno di noi.

Un progetto, qualunque sia la sua natura, e a maggior ragione un progetto politico serio, provoca sempre un riorientamento, più o meno brusco, del pensiero. Esso è dunque caratterizzabile, in prima istanza, come il passaggio da una situazione statica, di quiete e di appagamento, a un processo dinamico.

In che cosa consista questo passaggio dalla stasi mortifera, che è la negazione della vita, a una situazione di movimento in cui ci si riappropria del proprio destino e ci si batte per conquistare gli strumenti che ci mettano in condizione di decidere del nostro futuro, ce lo fa capire Alasdair MacIntyre  nel primo capitolo del suo libro Dopo la virtù.

Vittima di una catastrofe imprecisata, una certa società si trova a poter disporre esclusivamente di libri strappati, pagine bruciacchiate, pezzi di strumenti, brandelli di teorie, residui e relitti di quello che in un tempo lontano e non più ricostruibile dalla memoria è stata una conoscenza sistemica, vasta, organica e ben strutturata.  Ciò che gli uomini del presente possono fare è ricomporre questi frammenti in un insieme di pratiche che vanno sotto i nomi riesumati di «fisica», «chimica», «biologia» e via elencando. Gli adulti discutono fra loro sulle evidenze rispettive e sulle prove e gli argomenti a sostegno della teoria della relatività, dell’evoluzione e del flogisto, pur avendo di ciascuna di esse una conoscenza molto parziale e indiretta. I bambini imparano a memoria le parti superstiti della tavola degli elementi e recitano come formule magiche alcuni teoremi di Euclide. Nessuno, o quasi nessuno, si rende conto che ciò di cui si stanno occupando non ha nulla a che fare con la scienza naturale in qualsiasi significato legittimo del termine. Possiamo definirlo un mondo in cui il linguaggio della scienza naturale, o almeno di una parte di esso, continua a essere usato, ma sotto il profilo teorico è in uno stato di disordine e confusione.

Questa è appunto la metafora proposta da Alasdair MacIntyre, che di immaginare come si comporterebbero gli uomini in questo mondo possibile e che uso farebbero dei frammenti rimasti  per tentare di imbastire un nuovo discorso. Il risultato di questa immaginazione è però meno lontano dalla realtà di quanto si possa pensare. Abbiamo davvero a che fare con frammenti, con una scomposizione non provocata da alcuna catastrofe originaria, bensì da una concentrazione sul particolare che sta facendo perdere di vista il generale. I grandi temi che dovremmo affrontare sono, ad esempio, sul piano dei rapporti con la natura quello dell’energia, la descrizione dell’interazione tra oceani, terra e atmosfera al fine di predire in termini il più possibile accurati variazioni climatiche dovute all’effetto serra e, a livello sociale, il lavoro che manca sempre più, l’analfabetismo di ritorno, un sistema scolastico sempre più fragile a causa dei colpi che gli vengono inferti da politiche dissennate, il destino dei giovani, la crescente difficoltà di imbastire un dialogo produttivo e solidale tra diverse generazioni da cui scaturisca una reale comprensione dei rispettivi problemi e disagi. La politica che ci viene proposta oggi queste questioni le frammenta, le spezzetta, le tritura, le frulla, le scompone e le ricompone in  modi improbabili e privi di logica, proprio come le vittime della catastrofe di Macintyre, che non riescono a vedere il contesto, l’insieme e i nessi reciproci tra i problemi che devono affrontare e maneggiano dettagli privi di senso. Il risultato è uno scimmiottamento, in presenza del quale è inevitabile che tratti fondamentali dei temi di cui occuparsi passino del tutto sotto silenzio, e non vengano neppure percepiti, proprio come se non ci fossero. Lo sforzo teorico di costruire un discorso che prescinda da quel che non si riesce a vedere li relega sempre più nell’ombra, oltre il cono luminoso della ragione.

La conseguenza di questa catastrofe della politica è che sulla scena pubblica diventa dominante l’ostinazione – quella violenta dei potenti e quella disperata degli impotenti – con la quale si supplisce alla mancanza di ragioni.

Se questa è la natura della situazione in cui ci troviamo per capire da dove ripartire e come si possa procedere  occorre prendere atto dello stato di disordine e confusione in cui si trova il linguaggio e lavorare sulla forma di cui il senso si riveste diventando lingua, individuando le parole che sono necessarie per esprimere le domande che ci stanno realmente a cuore. Bisogna quindi prendere avvio da un nuovo lessico della politica che ricostruisca e ridia significato e valore ai nessi perduti, alle relazioni smarrite, cominciando da quella originaria e fondamentale, che caratterizza la natura umana, che è e non può che essere la singolarità e la dipendenza. La singolarità reale, ricca di tutte le sfumature che costituiscono l’identità di una persona, l’unicum umano; e la dipendenza reciproca, quella senza la quale nessun bambino potrebbe andare oltre le poche settimane di vita, nessun maestro potrebbe insegnare e nessun discepolo imparare, nessun lavoro potrebbe essere svolto, nessun ordinamento politico o sociale potrebbe mai reggersi.

Anche la politica, anzi soprattutto la politica, è l’espressione di questa dipendenza reciproca, che, assume nel suo caso specifico, i contorni dell’esercizio di una reciprocità asimmetrica, in termini di potere, tra chi la pratica e il cittadino. Essere un buon politico vuol dire non abusare di questa asimmetria, non mettere l’accento su di essa, enfatizzandola e cancellando in questo modo ogni traccia di reciprocità. Il politico deve mettere questa asimmetria al servizio dei cittadini, con la prassi dell’ascolto, per interpretarne al meglio le esigenze e innalzare la qualità della loro vita. Alla politica dell’abuso e dell’occupazione del potere va sostituita l’idea nobile e originaria della politica come servizio per gli altri e in cui il termine “potere” riacquista il senso originario e positivo di “essere in grado e in condizione di fare” con competenza e dedizione. Questo è l’impegno che deve guidare la buona politica, la politica concepita come attività di servizio, contro la sete di potere, contro l’usurpazione di posti di prestigio senza averne le capacità, le competenze e la necessaria tensione etica.

Le Pubblicazioni su questo tema:

1. La politica che non c’è. Idee guida per un progetto tra razionalità e valori, Demos, Cagliari,1997;

2.  Le radici dell’intolleranza, ‘I Temi’, anno V, 1999, n. 17, pp. 33-52;

3.  Le istituzioni e la modernità, in E. Orrù-N. Rudas,  Il pensiero permanente. Gramsci, oltre il suo tempo, Tema, Cagliari, 1999;

4.  Scienza, Etica, Politica, ‘Civiltà delle macchine’, anno XIX, n°2- 2001, pp. 23-60;

5.  L’eredità culturale e politica di L. Geymonat, in AAVV,  Il pensiero unitario di Ludovico Geymonat, Edizioni Nuova Cultura, Teramo, 2004;

6.  La politica e le sue radici storiche, in E. Orrù e N. Rudas, a cura di,  Umberto Cardia: la cultura e l’etica, Tema, Cagliari, 2006, pp. 421-444;

7.  Il governo locale e l’organizzazione di rete, in E. Vitello,  Autonomia e governance del sistema educativo lombardo, Fratelli Ferraro editori, Pozzuoli, 2007, pp. 72-89;

8.  Informazione e conoscenza: reti per unire o per dividere, in G.C. De Martin- F. Mazzocchio,  Condividere il mondo.  La dimensione universale del bene comune, Editrice a.v.e. Roma, 2009, pp. 109-132;

9.  La politica nello spazio intermedio, in  Psiche e Politica, ‘Rivista di Psicologia analitica’, Nuova serie, n. 29, vol. 81/2010, pp. 145-165;

10. D. Antiseri, P. Maninchedda. S. Tagliagambe,  La libertà, le lettere, il potere, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011.