Dopo essermi laureato a Milano con Ludovico Geymonat con una tesi sull’interpretazione della meccanica quantistica di Hans Reichenbach, nel 1969 mi sono recato a Mosca per proseguire i miei studi sui rapporti tra fisica e filosofia, soprattutto alla luce degli sviluppi della scoperta del quanto d’azione di Planck, prima all’università Lomonosov, sotto la direzione di Ja. P. Terleckij, e poi all’Accademia delle scienze dell’URSS, con la supervisione di V.A. Fock e M. E: Omelyanovskij.

Da questa esperienza è scaturito un filone di ricerca che si è inizialmente concentrato sulla Pietroburgo degli ultimi decenni del XIX secolo e dei primissimi anni del XX, che era un ambiente ove si realizzavano un intenso scambio dialogico e una singolare convergenza di ricerche di tipo eterogeneo, un laboratorio di sperimentazione dove convivevano, fondendosi al di là d’ogni confine disciplinare, punti di vista e modalità interpretative e d’indagine fortemente differenziati. La città, voluta con ferrea determinazione da Pietro il Grande con l’obiettivo di farne una “finestra sull’Europa”, presentava in quel periodo quella concentrazione di personalità di gran talento in uno spazio ridotto e in un arco di tempo ristretto, racchiuso nel succedersi di pochissime generazioni, che ne faceva un “cronotopo denso di tempo”, per usare un’espressione coniata più tardi per l’opera di Goethe da un originale pensatore che si formò, almeno parzialmente, a Pietroburgo e cioè Michail Bachtin.

Al centro di questo laboratorio “denso” che era la Pietroburgo degli anni ’80 del XIX secolo, c’era indubbiamente l’Università nella quale operavano ricercatori e docenti di primissimo piano, tra i quali spiccava la figura di D.I. Mendeleev. Le sue lezioni, come attesta un testimone diretto che ebbe la fortuna di seguirle, e che era a sua volta destinato a diventare uno scienziato di primissimo piano, e cioè V. I. Vernadskij, “avevano su di noi l’effetto della liberazione da una morsa e ci introducevano in un nuovo, straordinario mondo: il clima che si respirava in quell’aula 7, sempre gremitissima, dove Dmitrij Ivanovič teneva i suoi corsi, era tale da stimolare le più profonde e riposte aspirazioni della personalità umana verso la conoscenza e la sua applicazione attiva e pratica e da indurre molti di noi a giungere a conclusioni logiche e ad assumere posizioni del tutto inattese anche per noi stessi e lontane dai nostri rispettivi punti di partenza”. Per questo proprio a Mendeleev, oltre che allo stesso Vernadskij, ho dedicato studi miranti non solo ad analizzare i loro specifici percorsi di ricerca, ma anche a cercare di ricostruire l’atmosfera culturale che si poteva respirare nella Pietroburgo del tempo e gli straordinari intrecci tra le personalità di scienziati, filosofi, letterati, musicisti e artisti che ne animavano la vita culturale. Un vero e proprio laboratorio di “intelligenza connettiva” ante litteram.

All’università di Pietroburgo aveva insegnato e lavorato anche un altro grande scienziato, la cui opera costituisce una tappa cruciale nello studio del secolare problema del rapporto mente/corpo. Si tratta di Ivan Michailovič Sečenov che nel 1866 raccolse i saggi scritti a partire dal 1863 in un volume intitolato da ultimo Refleksy golovnogo mozga (I riflessi encefalici), dopo che la censura aveva rifiutato il titolo, ben più significativo ed esplicito, originariamente scelto dall’autore, e cioè Popytka vvesti fiziologičeskie osnovy v psichičeskie processy (Tentativo di porre i processi psichici su basi fisiologiche). Con quest’opera egli pose le basi di un indirizzo di ricerche psicologiche interamente fondato sulla fisiologia e caratterizzato da una critica implacabile e radicale delle idee di mente e di coscienza e della pretesa del pensiero di attribuirsi il ruolo di causa delle azioni e dei comportamenti umani.

Questa critica fu spinta da Sečenov fino al punto di relegare l’idea di un mondo interiore come punto di partenza di una catena causale che sfoci in decisioni, comportamenti e azioni nel campo delle illusioni prive di qualsiasi legittimità. A suo giudizio l’identità personale, la mente, la coscienza non sono proprietà a se stanti, sono le manifestazioni apparenti di atti riflessi, sono risposte a forze che ci fanno agire. La soggettività ha dunque la sua base nell’oggettività delle azioni riflesse: anche “prendere coscienza” è un atto riflesso. Se studiamo la realtà dei processi di pensiero non nei suoi contenuti, ma nel suo funzionamento, scopriamo l’alterità delle forze che ci fanno agire e l’automatismo costitutivo che produce e spiega le operazioni di ciò che, in modo improprio, chiamiamo mente. Emerge così una “logica” a base riflessa che fa svanire i miraggi e i fantasmi dell’io, delle essenze illusoriamente statiche, delle sostanze vaghe o delle identità artificiose, dissolve le illusioni della padronanza da parte del soggetto dei suoi pensieri e dei suoi atti e fa cadere il mito dell’autarchia interiore.

Visto in quest’ottica e all’interno di questo quadro il pensiero non è produzione attiva, bensì inibizione, conseguenza del differimento di un’azione di risposta sino al momento in cui non si siano presentate le condizioni opportune per un suo efficace dispiegamento. Esso è dunque l’effetto dell’azione dei meccanismi cerebrali inibitori dei riflessi, che introducono elementi di variazione e nuove articolazioni nel campo delle azioni riflesse e fanno progressivamente emergere, accanto al dominio dell’effettualità, delle risposte immediate e dirette, il regno della possibilità, dando avvio ad un rapporto sempre più complesso tra quest’ultima e la realtà. All’automaticità delle azioni riflesse pure cominciano così ad affiancarsi forme miste, risultato della combinazione delle prime con elementi psichici, come la paura e il piacere, che sono determinanti primordiali dettati dall’istinto di conservazione e capaci di sospendere o rafforzare i moti riflessi.

Il compito di rispondere alla sfida posta da questa impostazione fu assunto (singolarmente ma non troppo, se si considerano le specifiche caratteristiche dell’ambiente culturale di San Pietroburgo, alle quali ci siamo brevemente riferiti) da un grande scrittore, Fëdor Dostoevskij, che alla critica delle idee di Sečenov dedicò due suoi romanzi entrambi scritti nel pieno del rinnovamento e incremento degli studi sulla mente e sul suo rapporto con il cervello, alimentato dall’indirizzo del pensiero scientifico russo della prima metà degli anni ’60, e cioè Zapiski iz podpolja (Memorie dal sottosuolo) e Prestuplenie i nakazanie (Delitto e castigo), che del precedente può essere considerato uno svolgimento approfondito.

Entrambi i romanzi intendono essere una sfida esplicita e dichiarata al riduzionismo di Sečenov, in quanto propongono fenomeni mentali che, a giudizio dell’autore, resistono ad ogni sforzo di analisi e spiegazione di tipo fisiologico. Dostoevskij ammette che alla base dell’individualità personale di ciascuno vi sia qualcosa di sconosciuto a lui stesso, e che sia di conseguenza parziale e illusorio pensare di poter ridurre l’intera sfera dell’io alla coscienza, anzi fa di questa consapevolezza il punto di partenza e l’elemento di forza della sua analisi dell’uomo del sottosuolo, che proprio in nome e per conto dell’”impulso interiore”, del “residuo irrazionale”, che trascende i limiti dell’esperienza possibile, rifiuta di chinare la testa davanti al “muro”, costituito dall’insieme delle leggi della ragione e delle “evidenze”. A suo giudizio, però, Sečenov trae da questa giusta critica al pregiudizio che stabilisce un’improponibile equivalenza tra lo psichico e il conscio una conclusione del tutto fallace quando fa del sottosuolo, di questo “sconosciuto a se stesso” che ciascuno di noi porta in sé, un semplice meccanismo di risposta, immediata o differita che sia, l’espressione di un adattamento al mondo esterno e all’ambiente, e si spinge sino al punto di negare all’interiorità la possibilità e la capacità di fungere da origine e causa dei comportamenti umani. Il punto di controversia tra il fisiologo e lo scrittore non sta dunque nel riconoscimento della “alterità” che è in noi e dello sdoppiamento dell’io che ne deriva, ma in quella sorta di generazione automatica tanto dell’io che di questo “altro” che il primo propone, sulla base di quella che abbiamo chiamato la “logica a base riflessa”.

Si ha così una totale subordinazione del mondo interiore a quello esteriore, anzi una cancellazione del primo, ridotto a semplice parvenza illusoria del secondo. Ne risulta una riduzione della mente e dell’anima alla dimensione fisica e materiale che impedisce di dar conto di quella profonda concomitanza di questi due piani, il corporeo e lo spirituale, che pervade l’intera opera di Dostoevskij e che raggiunge un grado d’intensità tale da rendere i due livelli quasi indiscernibili in personaggi quali quello di Mitja Karamazov. Proprio questa fusione dei due piani rende la personalità di quest’ultimo pressoché indecifrabile, e comunque impermeabile agli strumenti analitici di cui si vale usualmente la psicologia, quella “scientifica” à la Sečenov in primo luogo. Come spiegare personalità come la sua, che nella realtà concreta del mondo non sono certo rare, se si riduce lo spirito a corpo, la mente a cervello? E come spiegare quel fenomeno, che per la ragione appare insondabile e che lo stesso scrittore, com’è noto, ha tragicamente sperimentato su se stesso, la rigenerazione che porta alla repentina comparsa di un “uomo nuovo”?

Ho chiamato “Sogno di Dostoevskij” questo sforzo di riuscire a dar senso a una prospettiva, nell’ambito della quale al mentale e allo psichico possa essere attribuita una specifica dimensione e autonomia rispetto al livello del cervello e del corpo. Ad esso ho dedicato un volume, che porta appunto quel titolo, nel quale, prendendo avvio e spunto dalla storica contrapposizione radicale tra un fisiologo e uno scrittore, ho cercato di esplorare l’attualità di questa controversia attraverso un confronto serrato con i più recenti studi sulla natura e sul funzionamento dei processi cerebrali e sui rapporti tra questi ultimi e la sfera della mente, pensata non come un qualcosa di occulto situato dentro la scatola cranica,di ciascuno, ma come un’atmosfera che ci circonda, un contesto e uno spazio che condividiamo, una disposizione solidaristica, relazionale.

L’approfondimento degli sviluppi che l’opera di Vernadskij ha avuto nella cultura russa, in particolare in quella filosofica e letteraria, mi ha portato, negli ultimi anni, a confrontarmi con il pensiero filosofico e scientifico di Pavel Florenskij, che con Vernadskij fu in costante contatto e che propose alla sua attenzione il passaggio dal concetto di «noosfera» a quello di «pneumatosfera», vale a dire di una specifica parte della materia, attratta e coinvolta nella circolazione della cultura o, più esattamente, dello spirito. A giudizio di Florenskij è difficile che possa essere messa in dubbio l’inseparabilità di questa circolazione rispetto alla circolazione generale della vita, che ha costituito uno degli oggetti specifici dell’attività di ricerca di Vernadskij. Ci sono al contrario a suo parere molti indizi, non ancora sufficientemente elaborati e formalizzati, che sembrano alludere a una particolare resistenza delle strutture della materia, in qualche modo plasmate dallo spirito, come accade ad esempio nel caso dei prodotti dell’arte. Ciò ci induce a supporre, appunto, l’esistenza anche di una corrispondente, specifica sfera della materia nel cosmo.

Un altro degli sviluppi e delle applicazioni ad altri contesto dei risultati dell’attività di ricerca di Vernadskij di cui mi sono occupato è quello avviato da Lotman con il concetto di «semiosfera» e la sua metafora del mondo come testo. Questa metafora viene così presentata dallo stesso Lotman:

“Nel testo l’avvenimento è il trasferimento del personaggio oltre i confini del campo semantico. Da ciò deriva che neanche una descrizione di qualche fatto o di qualche azione nei loro rapporti col denotato reale o col sistema semantico della lingua naturale, può essere definito avvenimento o non avvenimento, prima che sia risolta la questione del suo posto nel campo semantico-strutturale secondario, definibile dal tipo di cultura. Ma questa non è ancora una soluzione definitiva: entro i limiti di uno stesso schema culturale, lo stesso episodio può diventare o no un avvenimento, a seconda dei diversi livelli strutturali ai quali si trova. Ma per il fatto che si verificano sia un ordinamento semantico generale del testo sia ordinamenti locali, ognuno dei quali ha un proprio limite concettuale, l’avvenimento si può realizzare come successione di avvenimenti appartenenti a piani particolari, dalla catena di avvenimenti si ha l’intreccio. In questo senso quello che a livello del testo culturale costituisce un avvenimento, in un altro testo reale può diventare l’intreccio, cioè la stessa sequenza invariata di avvenimenti può essere sviluppata in una serie di intrecci a diversi livelli. Presentando a livello superiore un elemento dell’intreccio, si può variare la quantità di anelli della catena in dipendenza dal livello di sviluppo del testo”.

“È un brano importantissimo”, commenta Segre. “Anzitutto per la definizione dell’avvenimento (azione, nella terminologia adottata qui). Richiamandosi al campo semantico, Lotman enfatizza il fatto che le azioni narrative sono avvenimenti solo perché fanno parte di un testo, con i suoi campi semantici; e sono avvenimenti solo in relazione con i campi semantici stessi. Di qui la conseguenza che non conta l’importanza «reale» dell’azione, per farne un avvenimento, ma le sue conseguenze sui movimenti di uno o più personaggi tra l’uno e l’altro campo semantico”-

Pubblicazioni

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1972;
Ob odnoj koncepcii logiki mikrofiziki (Su una concezione della logica della microfisica), ‘Voprosy filosofii’, n.
7, 1972, pp. 68-77;
Scienza, filosofia, politica in Unione Sovietica. 1924-1939, Feltrinelli, Milano, 1978;
Materialismo e dialettica nella filosofia sovietica, Loescher, Torino, 1979;
Scienza e marxismo in Urss, Loescher, Torino, 1979;
Monolitismo della cultura sovietica?, ‘Critica marxista’, n. 3, 1982;
Darwin in Russia e il processo a Galileo, ‘Scientia, vol. 118, I-VIII, 1983;
L’originalità e l’importanza del pensiero di Vernadskij, ‘Scientia’, vol. 118, IX-XII, 1983.
Zritel’noe vosprijatie kak metafora (La percezione visiva come metafora), ‘Voprosy filosofii’, 1985, 10, pp.
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L’origine dell’idea di cronotopo in Bachtin, in A.A.V.V., Bachtin teorico del dialogo, Franco Angeli, Milano,
1986, pp. 35-78;
Mondi possibili e teoria del dialogo, in Bachtin, teorico del dialogo, cit.;
Il problema del cronotopo in Bachtin,’Bollettino del centro internazionale di storia dello spazio e del tempo’,
1986, pp.29-52;
Solipsimo e amore in Dostoevskij e Uhtomskij, in P. Follesa (a cura di), Psicoanalisi: l’eros, Borla, Roma,
1987,pp. 134-167;
Gramsci, Buharin e il materialismo dialettico sovietico, in A.A.V.V., La questione meridionale, Edizioni del
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La concezione della materia di Mihail Vasil’evič Lomonosov, in A. Di Meo e S. Tagliagambe (a cura di)
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V.I. Vernadskij, Pensieri filosofici di un naturalista. Traduzione e studio storico-introduttivo di S.
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